N E W S

 

Le risposte alla lettera

Gli interventi degli architetti
 
Messaggio inviato da Mario Lauro
Ho letto l'articolo in oggetto ,collegato alla «lettera dei 35»,e mi sembra che il parere piu' corretto sia quello di S. Zecchi! Mi auguro che non vogliamo ritornare ad esperienze del passato quali il «mitico» teatro Nuovo .....con annessi e connessi! Saluti
 
 
Messaggio inviato da Vieri Wiechmann-Firenze
Caro Romano, il "pianto" di alcuni architetti italiani che chiedono una tutela burocratica per arginare la invasione di architetti stranieri, mi sembra molto opinabile. Va notato che accanto a questi, citati nell' interessante articolo di Pierluigi Panza, ci sono tanti altri architetti italiani che lavorano in tutto il mondo mantenendo alto il buon nome dell' Italia ed esportando la nostra cultura e non hanno né tempo né motivo per lamentarsi.
D'altra parte è un fatto che l' Italia ha sicuramente fra le più brutte e sciatte architetture contemporanee del mondo, anche senza pensare a vere e proprie mostruosità come lo Zen di Palermo o gli stadi dove un buon numero di posti non possono vedere tutto il campo. La struttura della nuova Fiera di Milano (fatta da un architetto italiano) è bellissima, così come sembra affascinante il disegno del complesso che sostituirà la vecchia Fiera, disegnato da vari architetti stranieri. Non è una questione di nazionalità, quanto di idee e di sensibilità artistica. Se questi nuovi complessi architettonici funzioneranno da traino per migliorare il livello generale della nostra architettura, ben vengano i bravi architetti, italiani o stranieri che siano; ma non parliamo di protezione del prodotto nazionale.
 
 
Messaggio inviato da Mario Lauro
Ho letto l'articolo in oggetto ,collegato alla «lettera dei 35»,e mi sembra che il parere piu' corretto sia quello di S. Zecchi! Mi auguro che non vogliamo ritornare ad esperienze del passato quali il «mitico» teatro Nuovo .....con annessi e connessi! Saluti
 
 
Messaggio inviato da gdamiani@architecture.it
Caro Direttore la disturbo in merito all'articolo apparso ieria firma di Panza riguardo all'invasione di progetti stranieri. Ho disturbato una cinquantina di persone, si è formato un fronte compatto rispetto elle sciocchezze che i nostri senatori parevano affermare nell'articolo, abbiamo perso una giornata di lavoro per rispondere.
Salvo fare prima di spedire quello che chiunque dovrebbe fare, leggere i documenti. Nella petizione di Paolo Portoghesi non si fanno accenni agli stranieri, si invocano concorsi e non protezione e non si cita a caso Palladio. Giornata buttata, scuse da fare a molti. Troverei tutto ciò esecrabile su qualsiasi giornale, ma da Il Corriere della Sera è, a mio giudizio, inaccettabile. Distinti saluti
 
Messaggio inviato dall'architetto Carmela Riccardi
Ma chi sono questi giovani architetti italiani in rivolta che protestano per le rare opportunità di lavoro e per l’invasione di progetti stranieri?
Vittorio Gregotti, nato a Novara nel 1927
Paolo Portoghesi nato a Roma nel 1931
Guido Canella nato a Bucarest nel 1931
Antonio Monestiroli a Milano nato nel 1940
Per dire solo alcumi nomi…….. Nomi illustri e professori universitari che di opere in Italia ne hanno firmate, e di opportunità ne hanno avute. Hanno progettato e realizzato, qualcosa è venuta bene, altre meno………………………… Ma cosa vogliono? Quante altre opportunità vogliono? Hanno forse pensato a dare opportunità ai loro allievi nelle Facoltà di Architettura? Hanno pensato a fornire ai loro allievi una preparazione adeguata per competere professionalmente sullo scenario globale? Solo un paio i grossi nomi italiani che competono all’estero grazie a fabbriche fordiste di giovani architetti «meticci».
Questi nostri famosi professori architetti hanno forse pensatoche in Italia esistono architetti «giovani» e meno giovani con zero opportunità di lavoro? Hanno forse protestato perché gli Ordini degli Architetti non fanno alcuna politica di pari opportunità per i giovani e meno giovani? Sì, è meglio parlare di pari opportunità, più che di giovani architetti, perché questi architetti famosi che hanno poche occasioni di lavoro, che insegnano ed hanno insegnato alle università, hanno ignorato intere generazioni di architetti dai 30 ai 40, sino ai 50 anni.
Certo nella giungla della competizione professionale, homo hominis lupus, ma questi architetti che protestano insegnano ed insegnavano alle Università di Architettura, dovrebbero avere una missione, hanno delle responsabilità nei confronti delle generazioni a cui insegnano, nei confronti degli allievi. Un tempo c’erano i Maestri dell’Architettura, oggi ci sono i Professori.
I Professori che ho conosciuto, non hanno mai voluto fare i Maestri. E poi gli allievi, la massa degli allievi, la massa degli esami. Magari si portavano in studio quelli bravi a disegnare a mano libera o al computer, e quelli che sapevano scrivere e parlare li prendevano per mandare avanti i corsi delle lezioni all’università. A qualcuno di questi bisognava fargli vincere almeno un dottorando, altrimenti scappava. In ogni caso il massimo dello spazio che questi architetti famosi hanno concesso ai loro allievi è una carriera universitaria in si diventa ricercatore a 50 anni.
Ci sono anche le carriere fulminanti, ma lì abbiamo l’altra a che farecon i grandi temi italiani del nepotismo e des amantes. Nell’era dell’individualismo imperante anche il professore architetto dice «Aprés Moi, le Deluge», non si sente MAESTRO. Giuliano da Empoli in un editoriale della rivista «Zero»: «Zero si chiama così perché parte dal presupposto che l’Italia sia arrivata al grado zero della capacità di innovazione politica e culturale. Il nostro è diventato il paese degli Arafat: singoli individui e collettività organizzate che, al di là dei loro meriti storici, soffocano ogni possibilità di rinnovamento». Questi Architetti Professori, al di là dei loro meriti storici, prima di rivendicare altro da fare, hanno il dovere di affrontare le gravissime responsabilità che hanno nell’ aver contribuito a soffocare non solo ogni capacità di rinnovamento in architettura ed urbanistica, ma anche le giovani menti dei propri allievi architetti di ieri e di oggi.
Tutto questo soffocamento non riguarda naturalmente solo gli architetti giovanidi ieri e di oggi, ma un’intera classe dirigente. Chi avrebbe dovuto preparare questa nuova classe dirigente? Chi doveva dare opportunità agli allievi? Dove sono i maestri orgogliosi di trovare giovani talenti? Il maestro era colui che riusciva a circondarsi delle menti più vivaci, che spesso mettevano in crisi gli stessi limitati saperi del maestro. Storie d'altri tempi, oggi abbiamo solo professori molto limitati e poco inclini a pensare al futuro delle nuove generazioni.
N.B. Esistono certamente all’interno dell’Università illustri studiosi e intelligenze capaci e generose. Ma queste menti sono poche e isolate e comunque subiscono e accettano una logica che nel complesso ha prodotto un livello qualitativo della formazione universitaria del tutto mediocre, come sono mediocri i risultati della ricerca.
 
Messaggio inviato da Luigi Zanda
Caro Presidente, leggo oggi sul Corriere della Sera che numerosi ed importanti architetti italiani hanno inviato alle alte cariche dello Stato (ed anche al Presidente del Senato Marcello Pera) un appello con il quale hanno illustrato la “drammatica” situazione della progettazione nel nostro Paese ed hanno chiesto sostegno e aiuto. Tra i vari argomenti portati a dimostrazione della crisi della progettazione, l’appello degli architetti fa anche riferimento alla sempre maggiore quota di incarichi professionali che in Italia verrebbero attribuiti ad architetti stranieri.
Ho molte riserve sulla fondatezza di questa argomentazione. Ritengo, invece, che l’appello abbia individuato una questione grave e, purtroppo, assai poco considerata. Una questione che travalica il campo dell’architettura vera e propria per ricomprendere più in generale tutte le attività di ingegneria e di progettazione. Il nostro ordinamento, le istituzioni pubbliche, la politica non considerano la progettazione per quello che è: il centro e il cervello di ogni processo di sviluppo, riqualificazione, ammodernamento, delle nostre città e del nostro territorio.
Così nel nostro paese si è finito col promuovere una legislazione e una “politica” che, sostanzialmente, hanno emarginato la progettazione,trascurato la formazione di corpi tecnici dello Stati qualificati ed autorevoli, disperso un patrimonio molto consistente di capacità professionali. In una parola, anche in questo campo stiamoportando avanti una politica contraria al buon governo e all’interesse nazionale. Il protrarsi di questa situazione determina quella che gli architetti firmatari dell’appello definiscono la «drammatica» situazione dell’architettura italiana. Una situazione che danneggia tutti.
I progettisti, le stesse imprese, i costi, i tempi di realizzazione, la qualità delle opere. L’ottava Commissione del Senato ha tra le sue competenze i lavori pubblici, settore che io considero fortemente penalizzato, e non da ora, dalle condizioni in cui versa la progettazione nel nostro paese.
Ti segnalo, in particolare, che la cosiddetta «legge obiettivo», partita dal proposito di ridurre i tempi di esecuzione di grandi opere strategiche (proposito ad oggi consistentemente frustrato) ha dato un ultimo colpo al «ruolo»indipendente della progettazione. Il general contractor previsto dalla «legge obiettivo» non solo realizza l’opera (molto spesso con ampio ricorso al subappalto), ma anche elabora il progetto ed esercita i poteri di direzione dei lavori. Con buona pace dei principi generali che vorrebbero (anche a fini, diciamo così, di trasparenza) la progettazione ben distinta dalla realizzazione delle opere, il controllore ben separato dal controllato.
Caro Presidente, accade spesso che i ritardi, la lievitazione dei costi, l’impatto negativo degli interventi, siano riconducibili agli interessi delle imprese realizzatrici. Ma accade ancor più spesso che nel nostro paese il peccato originale dell’intervento pubblico consista tutto nella limitatezza degli investimenti (in risorse, in tempo, in indipendenza, in autorevolezza e nel rapporto con la pubblica amministrazione) di cui dispone la progettazione.Mi sembra che sinora l’andamento delle «grandi opere» confermi questa mia impressione. Credo, quindi, che l’ottava Commissione del Senato farebbe bene ad occuparsi della vasta problematica segnalata dall’appello degli architetti e ti sarei molto grato se tu volessi mettere il tema all’ordine del giorno di una delle nostre prossime sedute. Ti ringrazio e ti saluto con cordialità.
 
Mesaggio inviato da Fabio Riva
Sono un neo laureato in architetturae volevo sottolineare come i «mali», le difficoltà dell'architettura italiana non siano solo da imputare alle famose pastoie burocratiche ecc.
Tocco con mano la realtà lavorativa e personalmente mi chiedocome sia possibile farsi strada per un neo-architetto davanti alla difficoltà di trovare un lavoro, presso uno studio di architettura, che sia giustamente retribuito dove i giovani non siano solo impiegati per l'utilizzo di tecnologie informatiche ( vedi disegni a CAD o rendering ) ma valorizzati per il loro apporto di idee, mi chiedo come possano emergere i giovani in un contesto tanto avaro se non si ha neanche la possiblità di programmare il proprio futuro grazie a stipendi di 800 €, a volte anche vergognosamente piu bassi!
Manca la possiblità di lavorare e di poterlo faremotivati con un minimo di stipendio adeguato! Questo insieme ai ritardi alla burocrazia ai veti ad una committenza per nulla illuminata permette all'architettura italiana di non emergere nel proprio paese. E' vero importante e fondamentale sarà lo snellimento delle pastoie burocratiche ecc, ma non dimentichiamoci di valorizzare e di puntare sui giovani architetti bravi e numerosi e presenti.
 
 
Messaggio inviato da Daniela Rotondo
Mi riferisco all'articolo odierno «architetti in rivolta....»; l'argomento purtroppo è molto più ampio di quanto non si voglia far credere e quindi non penso utile dilungarsi su certi aspetti più di dettaglio che la stragrande maggioranza degli architetti italiani meno famosi conosce ma la gente comune meno; tuttavia mi preme sottolineare che sono stupito che i firmatari di questa rivolta siano alcuni degli esponenti più di spicco o che meglio si son riusciti a imporre nel campo architettonico e che son stati per anni a guidare facoltà di architettura e a gestire la nostra cultura architettonica.
Non possiamo continuare a ribaltare ad altri le nostre responsabilità. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa la maggioranza degli architetti italiani e se questi non pensino che la prima causa di questi risultati non siano proprio università e ordini professionali. d' altronde Renzo Piano già qualche decennio fa sollevò l'insofferenza di essere architetti in italia. Grazie Soloni universitari grazie politici inadeguati.
 
Messaggio inviato da Pietro Pagliardini
L'appello firmato da un gruppo di architetti appartenentiallo stars system dell'architettura italiana contro l'invadenza di colleghi stranieri, commentato ieri piuttosto ironicamente dal Corriere, è la cartina al tornasole del livello culturale del nostro paese: si individua un obbiettivo da colpire senza comprendere che in realtà il problema è tutt'altro e cioè un'architettura al cui centro c'è l'architetto anzichè il progetto e l'opera.
Questo sistema, di cui una parte dei firmatari sono responsabili,attraverso le università, le riviste in cui se la suonano e se la cantano, i concorsi in cui compaiono come commissari e in cui vengono priviligiati gli allievi, i seguaci o gli estimatori(pronti a restituire il favore in un concorso a parti invertite)è un circolo chiuso difficilmente penetrabile e non necessariamente in base al merito.
Adesso in questo circuito sono entrati, prepotentemente come era prevedibilein un mondo globale, altri, gli «stranieri» e i nostri nobili sentono che si avvicina la decadenza (ma alcuni fasti restano, eccome. La reazione corporativa è inutile, dannosa alla categoria degli architetti e all'immagine del nostro paese, di cui alcuni dei firmatari decantavano, fino a poco tempo fa, le meravigliose aspettative per l'ingresso in Europa (perchè si allargava il mercato?). Lo stars system premia i progettisti non il progetto, la griffe non l'opera. Se l'architettura è parificata alla moda, vincerà sempre la «firma» più forte, quella che riesce a porsi sul mercato in termini più desiderabili, che abbia più appeal, che abbia strategie di marcketing più aggressive e penetranti, non necessariamente quella che abbia il prodotto migliore. Era così anche quando erano in voga i firmatari, è così adesso con gli «stranieri».
Avrei preferito una riflessione più profonda invece che quell'appello il quale ha anche il demerito di attribuire alle sovrintendenze responsabilità sproporzionate rispetto al problema, senza tenere conto dei meriti, grandi, che queste hanno avuto nel salvaguardare i nostri centri storici dagli emuli delle stars e, talvolta, dalle stars stesse. Non troviamo tra i firmatari del'appello R.Piano e M. Fuksas, cioè le due attuali stars del firmamento italiano che esportano all'estero: è solo un caso o è la riprova di quanto detto sopra? Cordiali saluti
 
Messaggio inviato da Salvatore Fiorentino
Come cultore dell'architettura ho trovato assolutamente sconcertante l' iniziativa di un gruppo di importanti architetti italiani che non riuscendo a competere con i colleghi stranieri non trova di meglio che protestare con le massime cariche dello Stato.
È vero che l'Italia è certamente il Paesedove è più difficile fare architettura ma se gli stranieri si affermano anche nel Belpaese vuol dire che, in questo periodo storico, sono notevolmente più bravi.
Osservo, peraltro, che i leader della protesta sono tutti docenti universitari, forse frustrati da un'attività teorica che non riesce a tradursi in architetture significative e della validità della quale, a questo punto, mi pare lecito dubitare. Non a caso i maggiori architetti italiani contemporanei (Renzo Piano e Massimiliano Fuksas), affermati e apprezzati in tutto il mondo, non sono degli accademici
 
Messaggio inviato da Vittorio Gregotti
Ho letto l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì 7 settembre dal titolo “Architetti in rivolta, invasi da progetti stranieri”, e devo subito dire che se l’appello di Paolo Portoghesi può dar luogo ad interpretazioni come quelle (certamente in buona fede) di Pierluigi Panza, mi pento subito di averlo sottoscritto; per alcune ragioni.
Anzitutto l’internazionalismo critico, come io lo definisco, è uno dei fondamenti del progetto moderno(e dietro di esso dell’intera cultura europea) a cui io credo si debba essere fedeli. Internazionalismo critico naturalmente è qualcosa di assai diverso dall’ideologia del globalismo dei mercati e delle tecniche, delle inutili bizzarrie e della riduzione dell’architettura ad immagine. In secondo luogo credo che sia un errore individuare nelle sovrintendenze l’ostacolo ad uno sviluppo italiano dell’architettura. Dovremmo chiedere che esse siano meglio dotate di strumenti e di mezzi, che il loro personale sia meno burocratizzato e culturalmente più qualificato. Alle sovrintendenze dobbiamo comunque moltissimo per quanto riguarda la salvaguardia del nostro patrimonio: forse sono meno attrezzate per giudicare delle qualità delle opere moderne ma questo è un ragionamento assai diverso.
In terzo luogo chi deve essere messo sotto accusa per l’ «invasione dello straniero» (che io straniero non considero) è la struttura dei concorsi ed il basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche. Anch’esse hanno qualche scusante. Premiare uno straniero significa per loro accodarsi alla falsa idea che la qualità dell’architettura sia un problema di marketing e che quindi convenga premiare architetti che sono internazionalmente alla moda. E qui si inseriscono anche le responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa e della loro fissazione per la presunta novità anziché per il giudizio. Infine premiare uno straniero significa (al di là dell’esterofilia snobistica ben presente) anche evitare di prendere posizione (anche politica) nelle discussioni del nostro paese; e questo per un’amministrazione è sempre comodo. Infine vi è la questione della competenza nelle giurie dei grandi concorsi, una questione che in Italia si va ogni giorno aggravando, e che ha gravissime responsabilità, tanto da far sperare sovente che agli esiti non seguano le realizzazioni. Come si vede, tutto questo non ha a che vedere con una difesa sindacale o nazionalista che personalmente rifiuto.
 
Messaggio inviato da Manfredi Nicoletti. Professore Ordinario di Progettazione Architettonica Presso l'Università La Sapienza, Roma
Si ai progettisti “stranieri” in Italia, ma attraverso concorsi aperti e leali
Non ci sono più «stranieri». Siamo tutti egualmente partecipi di un unico mondo globalizzato. Che molti architetti stranieri lavorino in Italia non è uno scandalo. Lo scandalo è che lo facciano grazie al comportamento ai limiti della legalità delle Pubbliche Amministrazioni o di chi gestisce opere che, di fatto, sono opere pubbliche.
La legge sulle Opere Pubbliche in Italia impone di bandireun concorso per la scelta del Progetto da realizzare, quando il suo importo superi una certa soglia. Questa norma, che è sia giuridica che morale, è spesso aggirata con la scusa che il finanziamento proviene da soggetti privati. Ma la sentenza del 12 luglio 2001 della Corte di Giustizia Europea ha chiarito che l’obbligo del concorso europeo deriva non dalla provenienza del finanziamento, ma dal pubblico interesse dell’opera.
In tal caso l’invito alla partecipazione di progettisti stranieri è non solo un dovere, ma anche un indispensabile strumento per i progettisti e per tutti i cittadini italiani ed europei per confrontare soluzioni diverse, capire più a fondo il tema, incentivare concezioni progettuali d’eccellenza. E’ questa evasione delle regole che danneggia l’ambiente fisico, intellettuale e morale dell’Italia.
E’ da questa evasione che derivano oscenità urbanistichecome quella dell’Ara Pacis a Roma, un’opera pubblica affidata arbitrariamente, dai vertici capitolini, a un ottimo architetto americano, ma insensibile all’ambiente della Roma storica. Si è così operato impunemente e malamente nel tessuto antico di Roma, che non appartiene a una giunta comunale, ma all’Italia e alla cultura mondiale. Ora lo scempio è compiuto. L’insensibilità e il provincialismo hanno vinto malgrado le proteste più che autorevoli. Il Mausoleo d’Augusto è oscurato per sempre. Sembra che anche la futura Città dello Sport, sempre a Roma, sarà affidata senza concorso a uno «straniero». Il malcostume è dunque insanabile?
 
 
Messaggio inviato da Ettore Sottsass
Gentile Paolo Mieli, spero voglia pubblicare questo mio chiarimento. Sul Corriere della Sera del 7 settembre ho letto un articolo di Pierluigi Panza nel quale mi si coinvolge vastamente nella protesta di trentacinque architetti italiani allarmati «dall’invasione degli architetti stranieri» e «in difesa della tradizione italiana». La colpa viene data al potere assoluto dei sovrintendenti i quali appunto, si sentono i difensori assoluti di questa tradizione.
In realtà nella lettera dell’architetto Paolo Portoghesiche ho firmato, non si accenna minimamente a questo aspetto di rabbietta corporativa degli architetti italiani per ridurre la partecipazione straniera, per potere avere più spazio di lavoro. Nella lettera che ho firmato si parla piuttosto della preoccupazione che «si interrompa la continuità di una ricerca che ebbe inizio negli anni ’30 del Novecento per opera di un gruppo di architetti di cui oggi si celebra in ambito internazionale la capitale importanza per lo sviluppo della modernità in architettura; uomini come Terragni, Gardella, Albini, Scarpa, Samonà, Libera, Ridolfi».
Si parla anche con una certa veemenza della necessità di provvedimenti« che riducano l’inerzia dell’apparato burocratico e consentano libero accesso ai concorsi al di là di selezioni basate esclusivamente sul lavoro già compiuto, selezioni che precludono alle nuove generazioni l’accesso agli incarichi più significativi e bloccano così il vitale ricambio generazionale». Chi fa queste selezioni? Ho firmato quella lettera, che approvo, ricordando anche tuttavia alcuni esempi recenti di enormi progetti affidati non tanto ad architetti italiani o stranieri, ma a grandi concentrazioni del potere economico, italiano e straniero, che certamente non si distinguono per interessi intellettuali. Ma anche di questo aspetto, che non riguarda l’architettura ma il business internazionale, nell’articolo non si fa cenno.
Caro Direttore, se ha avuto la pazienza di leggere la mia precisazione mi permetto anche di allegarle la risposta che ho inviato, insieme alla mia adesione, all’architetto Portoghesi, di cui sono amico: Caro Paolo, ecco la mia copia firmata. Penso che la situazione dell’architettura italiana riguardi gli architetti ma soprattutto riguardi la miserabile qualità intellettuale dei politici e quindi della politica italiana. Forse dobbiamo convincerci che siamo una nazione ai bordi dell’impero e che certamente non abbiamo in questo momento, come nazione, la possibilità di partecipare allo strano, barbarico, progetto della contemporaneità.
Personalmente non ho grandi speranze; sono solo e riesco a muovere, quando riesco, microscopiche pedine. Tanto per fare qualcosa. Va tutto bene. Con questa lettera a Portoghesi non sottoscrivo nessun possibile aspetto corporativistico della protesta ma quel tanto che resta da pensare ancora sul futuro dell’architettura al di là del business. Aggiungo una piccola nota personale: dopo circa sessanta anni di professione, ho costruito una sola casa privata in Italia e circa una quindicina di “architetture” per privati stranieri, in Giappone, in Cina, negli Stati Uniti, a Singapore, in Belgio e in Svizzera. Posso contare inoltre un’altra quindicina di progetti, sempre per clienti stranieri, non eseguiti. A parte questo, sono stato e sono grande amico di moltissimi artisti, intellettuali, poeti, cantori e architetti stranieri; ad alcuni devo molta riconoscenza per l’aiuto professionale e per l’amicizia che mi hanno sempre offerto.
Non sono per niente contrario alla presenza in Italia di grandi o piccole architetture progettate da noti e bravissimi architetti stranieri. Come ho già detto, mi sento invece assolutamente inerme di fronte al paesaggio miserabile del futuro provinciale dell’italianità. La saluto cordialmente
 
Messaggio inviato da Giorgio Nocerino
Con riferimento agli articoli del «Corriere della sera» pubblicati in cronache del 07 e del 08/09/05, “ basta con gli stranieri, architetti divisi ”, e seguiti da relativo dibattito, vorrei fare alcune considerazioni. E’ vero, in Italia molti progetti di architettura sono stati affidati a firme di famosi architetti stranieri, con il conseguente (e giustificato) risentimento da parte degli studi italiani.
Tuttavia penso che ci sia una responsabilità da parte degli stessi architetti italiani, che si lamentano e che insegnano nelle varie Università. Infatti, è compito proprio delle Università, quello di formare l’ “eccellenza”, per sfidare la concorrenza delle varie “star” dell’architettura, ormai mondiale. Per lo più, invece, i corsi universitari si sono trasformati in diffusori delle opere di quei maestri dell’architettura, che poi dopo si vogliono contestare. Se in Italia sono in molti a registrare un reale impoverimento della classe professionale, lo si deve anche a coloro che, impigriti nei loro aurei recinti, non hanno saputo programmare il futuro dell’architettura e dell’arte italiana nell’era della globalità.
 
 
Messaggio inviato da Guido Pietropoli
Ci sono situazioni in cui mai ci sarebbe aspettati di vedere certe persone assieme: così, nella lettera al Presidente Ciampi di altolà all’invasione degli architetti stranieri, nella falange dei trentasei primi firmatari ci sono i nomi di P. Portoghesi e V. Gregotti.
Cosa abbiano in comune le loro architetture non è dato saperlo ma è ancora più oscura quale certificazione D.O.C. i loro edifici possano esibire al di là del numero civico dei rispettivi studi professionali. Sarebbe interessante aprire un dibattito sullo stato di salute e sull’attuale identità (o meno) dell’architettura italiana. Per contro, è facile concordare con Pio Baldi su quanto egli afferma di Scarpa, Ridolfi ma anche Albini, Gardella, Moretti e, non ultimo, il gran lombardo ancora operante Luigi Caccia Dominioni.
Il magistero di questi illustri personaggi come la loro dedizione artigianale al mestiere e il radicamento dei loro edifici all’identità dei luoghi sono indiscussi. Senza facili rimpianti, si tratta di personaggi di altri tempi ma essi sì veramente architetti italiani.
 
Messaggio inviato da Isabella Guarini
Ho letto con interesse il messaggio di protesta sottoscritto da noti architetti italiani,docenti nelle più importanti sedi universitarie. Tra essi ho riconosciuto alcuni da cui ho ricevuto insegnamenti durante gli studi universitari e resto sorpresa dal ritardo con cui palesano il malessere dell'architettura italiana. Tuttavia, condivido la protesta specialmente in riferimento al fatto che gli incarichi sono affidati a chi ha già avuto esperienza e possiede un portfolio miliardario. In questo modo si vanifica l'unico strumento di selezione per professionisti che è il concorso.
Infatti, è in voga il concorso con procedura ristretta con cui si scelgono i nomi dei progettisti non in base al progetto presentato ma in base a criteri economici e strumentali, che di per sè non garantiscono la qualità dell'architettura. In questo modo si escludono tutti, specialmente nel Sud dell'Italia. Non condivido, invece, la tendenziosa accusa alle Soprintendenze, che, per quanto appare dal testo del messaggio, sarebbero state colpevoli di aver impedito la realizzazione in Italia di opere d'architettura signficative, impedendo agli architetti di formarsi e resistere all'impatto della concorrenza globale.
Penso che lo scontro tra antico e nuovo nel nostro paesesia più aspro che in altri per il fatto che esso è caratterizzato dal più alto indice di monumentalità architettonica, artistica e paesaggistica.Per questo gli architetti devono confrontarsi continuamente con il contesto e, talvolta, rinunciare a imprese fortemente innovative per rispetto della memoria storica. Gli architetti dello star system internazionale invece hanno costruito le opere che li hanno resi famosi in situazioni deboli sul piano del contesto storico- artistico, ma forti dal punto di vista economico.Infine, mi sembra giusto il richiamo all'architettura italiana,in quanto risveglio del senso dell'appartenenza, ma non mera imitazione di quanto viene fatto in altri contesti.
 
 
Messaggio inviato da Michele Sacerdoti
Non sono architetto ma sono membro di due commissioni edilizie di circoscrizione e sono molto coinvolto nell'edilizia e urbanistica milanese insieme a associazioni di tutela e ambientaliste e ad associazioni spontanee di cittadini milanesi. Credo che non abbia alcun senso parlare di architetti italiani e stranieri ma solo di architettura rispettosa o no del contesto.
Condivido il messaggio di Isabella Guarini per quanto riguarda la monumentalità italiana e il confronto con il contesto. Non sono entusiasta delle opere degli anni trenta in Italia e quindi non ritengo che si debba a tutti i costi favorire lo sviluppo di questa linea di ricerca e peraltro non ritengo valide alcune opere dei firmatari dell'appello. Mi sembra giusto che nei concorsi non debbano essere data tanta importanza alle opere già realizzate, scartando così architetti che non hanno avuto la possibilità delle star di progettare ovunque nel mondo.
Mi sembra invece vergognoso l'attacco alle Sovrintendenze, che è una struttura che molti ci cinvidiano all'estero e che hanno contribuito a difendere i centri storici e il paesaggio italiano dall'assalto dell'architettura moderna. Invece di sminuirne i poteri e le risorse andrebbero potenziate come personale e mezzi. Ho dovuto spesso ricorrere al loro intervento per impedire la realizzazione di opere che avrebbero creato scempi nel centro storico. Purtroppo sono anch'esse sottoposte a pressioni e finiscono per essere "forti con i deboli e deboli con i forti". Un esempio per tutti l'intervento dell'arch. Botta sulla Scala di Milano, fortemente contestato dai milanesi più sensibili all'immagine della città e approvato dal Comitato di Settore del Ministero dei Beni Culturali a Roma a fronte della perplessità della Soprintendenza di Milano. Forse è questo che vogliono i firmatari dell'appello, poter aggirare i dinieghi delle soprintendenze locali tramite un organismo romano più malleabile.
Peraltro Pansa non ha citato nel suo articolo il progetto per il recinto fieristico della Fiera dove a tre star internazionali, Libeskind, Hadid e Isozaki, si è affiancato l'italiano Maggiora. Un progetto contestatissimo da parte dei residenti e di molti architetti italiani, che non si sa se definire italiano o straniero ma è sicuramente peggiore di quello di Renzo Piano. Non è un'opera pubblica in quanto la Fondazione Fiera proprietaria dell'opera è privata ma è stato fatto un finto concorso, in cui ha vinto chi ha offerto di più per il terreno. E in base al risultato di questo "concorso" il Comune non vuole respingere il progetto o chiederne la radicale modifica. Ma qui il problema non è la buona o cattiva architettura o il concorso, ma il fatto che il Comune non ha dato alcuna prescrizione sulla distribuzione degli edifici o sulla loro altezza massima, rinunciando al suo compito di pianificazione della città. E' il cosiddetto "Metodo Milano" in cui si scelgono alcuni progetti e poi vince chi offre la cifra più alta. Lo si vuole ora esportare in tutta Italia. Ecco perché per me l'appello non ha alcun senso, bisogna invece rinforzare le Soprintendenze e il potere di pianificazione pubblica, in modo che i concorsi abbiano chiare prescrizioni, definite ascoltando i residenti in modo democratico e partecipato, con commissioni che siano in grado di valutare tutti gli aspetti dei progetti, non solo quelli più appariscenti.
A Berlino ad esempio il Comune obbliga gli architetti a progettare in un certo modo, indipendentemente dalla loro fama. Gli architetti non possono pretendere di essere i padroni del mondo e fare quello che vogliono: le loro opere durano anni e poi tutti le devono subire, non fanno esperimenti in laboratorio o nei musei ma sul territorio che è di tutti. Il Parlamento, invece di occuparsi dell'appello, farebbe meglio a bloccare la nuova legge urbanistica Lupi-Mantini che darà ai privati il potere di pianificare lo sviluppo delle città.
 
Lettera inviata da Manfredi Nicoletti, professore Ordinario di Progettazione Architettonica Presso l’Università La Sapienza, Roma Vice Presidente dell’International Academy of Architecture
 
Caro Dr. Romano,
Il Corriere della Sera ha ospitato la firma di Pierluigi Panza allo «scandalo» dovuto all’invasione professionale degli architetti stranieri in Italia. Vorrei aggiungere la mia opinione. In architettura, gli «stranieri» non esistono più. Apparteniamo tutti a un unico mondo globalizzato. Che molti architetti stranieri lavorino in Italia non è uno scandalo. Lo scandalo è che lo facciano grazie al comportamento ai limiti della legalità delle Pubbliche Amministrazioni o di chi gestisce opere che, di fatto, sono opere pubbliche. La legge sulle Opere Pubbliche in Italia impone di bandire un concorso per la scelta del Progetto da realizzare, quando il suo importo superi una certa soglia.
Questa norma è spesso aggirata con la scusa che il finanziamento o l’iniziativa proviene da soggetti privati. Ma la sentenza del 12 luglio 2001 della Corte di Giustizia Europea ha chiarito che l’obbligo del concorso europeo deriva non dalla provenienza «pubblica» o privata del finanziamento, ma dal pubblico interesse dell’opera. In tal caso l’invito alla partecipazione di progettisti stranieri è non solo un dovere, ma anche un indispensabile strumento per i progettisti e l’opinione pubblica per confrontare soluzioni diverse, capire a fondo il tema, incentivare concezioni d’eccellenza. E’ questa evasione delle regole che danneggia l’ambiente fisico, intellettuale e morale dell’Italia.
E’ da questa evasione che derivano oscenità come quella dell’Ara Pacis a Roma, un’opera pubblica affidata arbitrariamente, dai vertici capitolini, a un ottimo architetto americano, ma insensibile all’ambiente della Roma storica. Si è così operato impunemente e malamente nel tessuto antico di Roma, che non appartiene a una giunta comunale, ma alla cultura mondiale. Ora lo scempio è compiuto. La disinvoltura e il provincialismo hanno vinto e continuano a vincere ovunque. Sembra che anche la futura Città dello Sport, sempre a Roma, sarà affidata senza concorso a uno «straniero» o a un altro «raccomandato». Il malcostume è insanabile?
 
Messaggio inviato da Carmela Riccardi
 
Nellapuntata radiofonica della seconda edizione de L’era urbana andata in onda su RADIO RAI 3 lo scorso 23 maggio Gregotti intervistato, nell’ambito della puntata dedicata alle trasformazioni urbanistico-architettoniche di Milano, dichiarava, riferendosi ai grandi progetti che stanno ridisegnando lo sky linedella città lombarda ad opera di illustri colleghi stranieri (Libeskind, Hadid, Pelli, Pei, ..) che l’Italia sta diventando un paese del 3° mondo, un territorio in via di colonizzazione da parte di prestigiose firme straniere che, grazie anche all’abuso della tipologia a torre/grattacielo proposta nei loro progetti in Italia, si stanno appropriando delle nostre città. A tali critiche Zaha Hadid rispondeva irritata sostenendo che tutta l’Italia è fatta di torri, basti pensare ai campanili delle chiese o a alla Torre di Pisa. Questo battibecco a distanza e in differita visto che le interviste erano registrate sembrava un episodio singolo destinato a consumarsi all’interno di un dibattito circoscritto ad un ambito locale seppur importante come quello di Milano. Invece stando all’articolo apparso oggi sul Corriere della Sera(a firma di Pierluigi Panza) quelle che all’epoca poteva sembrare solo l’esternazione personale di un professionista escluso da progetti importanti per la sua città, si è dimostrato il segno anticipatore di un malessere condiviso e organizzato da un gruppo di architetti italiani che in 35 uniti dalla raccolta di firme denunciano lo strapotere in territorio nazionale dei colleghi stranieri e difendono la «irrinunciabile risorsa culturale, che non può essere ulteriormente vanificata e ignorata».Ma chi sono questi giovani ribelli che protestano per le rare opportunità di lavoro e per l’invasione di progetti stranieri? Da quali radici culturali muove il loro messaggio sovversivo? Rappresentano una nuova frangia di estrema destra o un gruppo di attivisti no-global? Sono un nuovo movimento universitario o la cellula impazzita di qualche Ordine professionale che, a pochi giorni dalle elezioni (provinciali e nazionali), esce allo scoperto con un disegno destabilizzante finalizzato a creare disordine e magari tentare di condizionare gli esiti delle votazioni democratiche dei nuovi Consigli? Con sorpresa scopriamo che i caporioni di questa brigata di sciovinisti rivoluzionari sono lo stesso Vittorio Gregotti (classe 1927) seguito da Paolo Portoghesi (classe 1931), Guido Canella (classe 1931), Ettore Sottsass (classe 1927?), Antonio Monestiroli (classe 1940), per fare solo alcuni nomi di coloro i quali hanno aderito con la loro firma a questo appello tra l’altro inviato ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato. Da questo appello sembra che la situazione «drammatica»in cui versa la «cultura del progetto» in Italia sia dovuta al fatto che si privilegiano i progettisti stranieri piuttosto che quelli italiani perché questi hanno avuto la possibilità di acquisire competenze grazie alla realizzare grandi opere «di interesse sociale» agevolate anche dalle politiche di sviluppo dei loro paesi - cosa che in Italia non è accaduto privando così i professionisti nostrani di analoghe «occasioni di lavoro». Questo condizione di stallo è stata poi spiegata denunciando il potere con cui le soprintendenze che in modo anacronistico esercitano ancora oggi e da anni il loro veto nei confronti di «molte opere significative rimaste sulla carta». (Questo stato delle cose verrebbe superato se in sede ministeriale e precisamente all’interno del DARC (…) si attivasse una «commissione pluralistica» che potesse attivarsi come supervisore delle singole realtà locali così da ridimensionare lo «autonomismo» decisionale delle incriminate soprintendenze. Tesi che viene condivisa anche da Mario Botta che dice «…La figura del soprintendente è un po’ arcaica, borbonica, va riformata se crediamo che il progetto sia ciò che trasforma la città». Ma vediamo chi sono. È solo colpa delle soprintendenze o sono stati loro a contribuire a …? Quando vincono i concorsi loro non c’è problema ma se vincono gli altri (vedi O. Benini)? Sanno in grado di progettare la città? Capire come hanno fatto a costruire in Italia…Perché adesso?…eliminerei) E’ forse plausibile che questi illustri firmatari, alcuni sulla scena da mezzo secolo, non hanno a che fare con le cause e gli effetti del disastro culturale architettonico e urbanistico italiano che essi stessi denunciano? Il disastro culturale è frutto solo dei veti dei poteri borbonici della soprintendenza, dei veti burocratici delle Amministrazioni, e di quanti non hanno la segreta sensibilità al progetto in Italia, che solo i firmatari sembrano avere? (proposta d’inserimento) Si tratta di architetti famosi e professori universitari che di opere in Italia ne hanno firmate, e di opportunità ne hanno avute. Hanno progettato e realizzato, qualcosa è venuta bene, altre meno. Ma cosa vogliono? Quante altre opportunità vogliono? Hanno forse pensato a dare spazio ai loro allievi nelle Facoltà di Architettura? Hanno pensato a fornire ai loro studenti una preparazione adeguata per competere professionalmente sullo scenario globale? Solo un paio i grossi nomi italiani che competono all’estero grazie a fabbriche fordiste di giovani architetti «meticci». Questi nostri famosi professori architetti hanno forse pensato che in Italia esistono architetti «giovani» e meno giovani con zero opportunità di lavoro? Hanno forse protestato perché gli Ordini degli Architetti non fanno alcuna politica di «pari opportunità» per i giovani e meno giovani? Sì, è meglio parlare di pari opportunità, più che di giovani architetti, perché questi architetti famosi che hanno poche occasioni di lavoro, che insegnano ed hanno insegnato alle università, hanno ignorato intere generazioni di architetti dai 30 ai 40, sino ai 50 anni. Certo nella giungla della competizione professionale - homo hominis lupus- ma questi architetti che protestano insegnano ed insegnavano alle Università di Architettura, dovrebbero avere una missione, hanno delle responsabilità nei confronti delle generazioni a cui insegnano, nei confronti degli allievi. Un tempo c’erano i Maestri dell’Architettura, oggi ci sono i Professori. Molti Professori da tempo non hanno voglia di fare i Maestri. E poi gli allievi, la massa degli allievi, la massa degli esami. Magari si portavano in studio quelli bravi a disegnare (per quattro soldi) a mano libera o al computer, e quelli che sapevano scrivere e parlare li prendevano per mandare avanti i corsi delle lezioni all’università. A qualcuno di questi bisognava fargli vincere almeno un dottorato, altrimenti scappava. In ogni caso il massimo dello spazio che questi architetti famosi hanno concesso ai loro allievi è una carriera universitaria in cui si diventa ricercatore a 50 anni. Ci sono anche le carriere fulminanti, ma lì abbiamo l’altra a che fare con i grandi temi italiani del nepotismo e des amantes. Nell’era dell’individualismo imperante anche il professore architetto dice «Aprés Moi, le Deluge», non si sente MAESTRO. Giuliano da Empoli in un editoriale della rivista Zero(nr. 1/2005, «L’Italia di plastica» Marsilo Editore) - si chiama così perché parte dal presupposto che l’Italia sia arrivata al grado zero della capacità di innovazione politica e culturale – dichiara: «Il nostro è diventato il paese degli Arafat: singoli individui e collettività organizzate che, al di là dei loro meriti storici, soffocano ogni possibilità di rinnovamento.»
Questi Architetti Professori, al di là dei loro meriti storici, prima di rivendicare altro da fare, hanno il dovere di affrontare le gravissime responsabilità che hanno nell’ aver contribuito a soffocare non solo ogni capacità di rinnovamento in architettura ed urbanistica, ma anche le giovani menti dei propri allievi architetti di ieri e di oggi. Tutto questo soffocamento non riguarda naturalmente solo gli architetti giovani di ieri e di oggi, ma un’intera classe dirigente. Chi avrebbe dovuto preparare questa nuova classe dirigente? Chi doveva dare opportunità agli allievi? Dove sono i maestri orgogliosi di trovare giovani talenti? Il maestro era colui che riusciva a circondarsi delle menti più vivaci, che spesso mettevano in crisi gli stessi limitati saperi del maestro. Storie d'altri tempi, oggi abbiamo solo professori molto limitati e poco inclini a pensare al futuro delle nuove generazioni.
N.B. Esistono certamente all’interno dell’Università Illustri Professori-Maestri, Studiosi e Intelligenze capaci e generose. Ma queste menti sono poche e isolate e comunque subiscono e accettano una logica che nel complesso ha prodotto un livello qualitativo della formazione universitaria del tutto mediocre, come sono mediocri i risultati della ricerca in Italia.
 
 
Messaggio inviato da Anonimo: mail@exposurearchitects.com
 
Vi scrivo in relazione agli articoli riguardanti l'invasione degli architetti stranieri in Italia. Ritengo che da tempo ormai i firmatari del documento appartengano al passato, e la lettera inviata al presidente del consigli e della repubblica testimonia la loro incapacità di adeguarsi all'evoluzione dell'architettura, sia in Italia che all'estero. Il mondo infatti appartiene sempre più ai giovani, anche se in architettura questo è vero solo in parte. Da qualche tempo ci sono una serie di studi di architettura italiani, i cui membri si sono formati sia in Italia che all'estero, e di cui alcuni quotidiani finalmente danno notizia, che sicuramente non vivono il malessere dei grandi vecchi, firmatari della lettera. Si chieda loro cosa ne pensano del problema. Lasciamo i padri dell'archiettura invecchiare tranquillamente nei loro uffici circondati dai bellissimi progetti che hanno fatto in giovinezza, e diamo spazio alle forze nuove che esistono in Italia e forse il problema da loro indicato non si porrebbe nemmeno...Botta poi è svizzero, forse se n'è dimenticato.
 
Messaggio inviato da Claudio De Albertis, presidente dell'Ance
 
«Gregotti ha quasi ragione». In italia i progettisti, ingegneri ed architetti, non hanno avuto per lungo tempo occasioni per sperimentare una estetica contemporanea e, coerentemente, una competenza tecnica aggiornata. Ed ora di fronte ai competitors internazionali che improvvisamente incontrano il favore di sindaci ed assessori spesso piu’interessati all’audience che le architetture spettacolari e gli architetti dello star system garantiscono. Del resto il mercato aperto si fonda su di una competizione oggettiva regolata sulle leggi della domanda ed offerta e non e’ questo il meccanismo da mettere in discussione.
Merita invece riflettere sui confini di questo fenomeno che vanno davvero oltre un problema di difesa corporativa di una categoria professionale. La colpa prima di tutto non e’ imputabile soltanto alle Soprintendenze, quanto a tutta
l’Amministrazione Pubblica che, sia a livello locale che centrale, ha dato priorita’ assoluta alla conservazione piuttosto che alla sperimentazione di nuovi modelli insediativi corrispondenti ai nuovi stili di vita. E’ infatti troppo facile invocare il peso della grande tradizione storica dell’architettura del nostro paese che avrebbe inibito la capacita’ creativa dei progettisti e giustificato il mancato confronto di un’espressione estetica originale e contemporanea con le grandi architetture del passato. Certo e’ piu’ facile essere Frank Gery a Miami che in piazza dei Miracoli a Pisa, ma la Casa del Fascio di Terragni a fianco del Duomo di Como e’ ancora oggi un riferimento per i giovani architetti di tutto il mondo e Roma, la citta’ storica piu’ significativa in assoluto, e’ un mosaico di culture differenti e spesso contrastanti, frammenti di ogni epoca accostati e sovrapposti in una scena urbana di grande ricchezza. In questo quadro i nostri progettisti e tecnici hanno soprattutto maturato esperienze di recupero o di costruzione in analogia con il patrimonio edilizio esistente. Per 40 anni non hanno quasi mai avuto la possibilità di azzardare proposte espressive alternative che potessero anche costituire occasioni di riflessione e crescita per tutto il settore delle costruzioni.
Questo vale infatti, e forse piu’ gravemente, anche per l’industria delle costruzioni. Il sistema produttivo e’ strutturato su tecniche, professionalità, strumenti e materiali che sono gli stessi del passato. Poco nella maggior parte dei nostri cantieri e’ cambiato. Parallelamente al disagio dei progettisti italiani va quindi rilevato oggi anche un problema di aggiornamento dell’intero settore. Nelle citta’ si e’ incentivata la ristrutturazione di edifici obsoleti invece di favorire la loro sostituzione con manufatti più adatti alla domanda e anche le ultime proposte
legislative sono viziate da una matrice di riferimento obbligato, la ‘coerenza con la citta’ storica’. Una coerenza che è condivisibile se riferita alle parti autenticamente storiche della città, ma che diventa inutile e dannosa se applicata a tutto ciò che ha più di 50 anni.
La tanto discussa legge lombarda sui sottotetti, ad esempio, si applica, con macchinose regole compositive, sui locali con tetti a falde inclinate e non e’ invece praticabile con una copertura piana. Un indubbio vantaggio volumetrico, di fatto un aumento di superficie urbanistica, e’ condizionato dalla presenza di un manufatto ormai obsoleto e condizionante, il tetto a falde spioventi, ma in un certo senso riparatorio rispetto ad una conformita’ morfologica consueta.
Ovvero nella ‘Valutazione di impatto paesistico’, che ormai e’ richiesta per quasi tutti gli interventi, la matrice che regola l’impatto di una nuova costruzione sul contesto porta ad un risultato piu’ favorevole alla procedura autorizzativa dell’intervento se lo stesso mantiene i caratteri architettonici, lo stile, I materiali, del tessuto urbano in cui si inserisce. Senza poi dimenticare l’obbligo, nei casi di interventi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, del fedele mantenimento della sagoma esistente dell’edificio. Questa situazione si e’ in parte rovesciata con l’ultima campagna di opere pubbliche e interventi di grandi dimensioni legati ai concorsi internazionali di progettazione, dove invece e’ stata improvvisamente premiata un’architettura spettacolare e schiere di architetti internazionali hanno avuto mano libera nel proporre di mutare radicalmente l’immagine delle nostre citta’, prima gelosamente conservate per decenni. Costruzioni di vetro e titanio con costi di manutenzione altissimi, bilanci energetici squilibrati, vivibilita’ dubbia, compatibili solo con poche funzioni pubbliche o con funzioni private di alta rappresentanza. Un mercato nei fatti marginale che ha pero’ condizionato le aspettative estetiche di committenti e fruitori intrigati dagli effetti speciali e dalla eccezionalita’ del segno. Tutto questo mentre il resto del mondo deve fare I conti con le giuste istanze della ricerca sul contenimento energetico e con il potere di acquisto di utenti che non sono sempre o soltanto la fondazione Guggenheim. Trovo quindi davvero giusto aprire un dibattito e una riflessione generale sui futuri modelli insediativi veramente compatibili con i caratteri e l’economia del nostro paese, in assoluta liberta’ rispetto ai lacci del passato e magari in coerenza con la nostra ultima vera stagione di sperimentazione che e’ stata quella del 900. Una generazione di maestri, architetti, ingegneri e costruttori che ci ha lasciato architetture che ancora oggi costituiscono un riferimento per progettisti internazionali che, in molti casi, non hanno saputo proporre se non l’estetica del «famolo strano».

Fonte: http://www.corriere.it
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/09_Settembre/10/pop_architetti.shtml

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