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Le risposte alla lettera |
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Gli interventi degli architetti | ||||
Messaggio inviato da Mario Lauro
Ho letto l'articolo in
oggetto ,collegato alla «lettera dei 35»,e
mi sembra che il parere piu' corretto sia quello di S.
Zecchi! Mi auguro che non vogliamo ritornare ad
esperienze del passato quali il «mitico» teatro Nuovo
.....con annessi e connessi! Saluti
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Messaggio inviato da Vieri
Wiechmann-Firenze
Caro Romano, il "pianto" di alcuni
architetti italiani che
chiedono una tutela burocratica per arginare la invasione di
architetti stranieri, mi sembra molto opinabile. Va notato che
accanto a questi, citati nell' interessante articolo di Pierluigi
Panza, ci sono tanti altri architetti italiani che lavorano in tutto
il mondo mantenendo alto il buon nome dell' Italia ed esportando la
nostra cultura e non hanno né tempo né motivo per lamentarsi.
D'altra
parte è un fatto che l' Italia ha sicuramente fra le più
brutte e sciatte architetture contemporanee del mondo, anche senza
pensare a vere e proprie mostruosità come lo Zen di Palermo o gli
stadi dove un buon numero di posti non possono vedere tutto il
campo. La struttura della nuova Fiera di Milano (fatta da un
architetto italiano) è bellissima, così come sembra affascinante il
disegno del complesso che sostituirà la vecchia Fiera, disegnato da
vari architetti stranieri. Non è una questione di nazionalità,
quanto di idee e di sensibilità artistica. Se questi nuovi complessi
architettonici funzioneranno da traino per migliorare il livello
generale della nostra architettura, ben vengano i bravi architetti,
italiani o stranieri che siano; ma non parliamo di protezione del
prodotto nazionale.
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Messaggio
inviato da Mario Lauro
Ho letto l'articolo in oggetto
,collegato alla «lettera dei 35»,e
mi sembra che il parere piu' corretto sia quello di S. Zecchi! Mi
auguro che non vogliamo ritornare ad esperienze del passato quali il
«mitico» teatro Nuovo .....con annessi e connessi! Saluti
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Messaggio inviato da
gdamiani@architecture.it
Caro Direttore la disturbo in merito all'articolo apparso ieria
firma di Panza riguardo all'invasione di progetti stranieri. Ho
disturbato una cinquantina di persone, si è formato un fronte
compatto rispetto elle sciocchezze che i nostri senatori parevano
affermare nell'articolo, abbiamo perso una giornata di lavoro per
rispondere.
Salvo fare
prima di spedire quello che chiunque dovrebbe fare, leggere i
documenti. Nella petizione di Paolo Portoghesi non si fanno accenni
agli stranieri, si invocano concorsi e non protezione e non si cita
a caso Palladio. Giornata buttata, scuse da fare a molti. Troverei
tutto ciò esecrabile su qualsiasi giornale, ma da Il Corriere della
Sera è, a mio giudizio, inaccettabile. Distinti saluti
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Messaggio inviato dall'architetto
Carmela Riccardi
Ma chi sono questi giovani architetti italiani in rivolta che
protestano per le rare opportunità di lavoro e per l’invasione di
progetti stranieri?
Vittorio Gregotti, nato a Novara nel
1927
Paolo Portoghesi nato a Roma nel 1931
Guido Canella nato a Bucarest nel 1931
Antonio Monestiroli a Milano nato nel
1940
Per dire
solo alcumi nomi…….. Nomi illustri e professori universitari
che di opere in Italia ne hanno firmate, e di opportunità ne hanno
avute. Hanno progettato e realizzato, qualcosa è venuta bene, altre
meno………………………… Ma cosa vogliono? Quante altre opportunità vogliono?
Hanno forse pensato a dare opportunità ai loro allievi nelle Facoltà
di Architettura? Hanno pensato a fornire ai loro allievi una
preparazione adeguata per competere professionalmente sullo scenario
globale? Solo un paio i grossi nomi italiani che competono
all’estero grazie a fabbriche fordiste di giovani architetti
«meticci».
Questi nostri famosi professori architetti hanno forse pensatoche
in Italia esistono architetti «giovani» e meno giovani con zero
opportunità di lavoro? Hanno forse protestato perché gli Ordini
degli Architetti non fanno alcuna politica di pari opportunità per i
giovani e meno giovani? Sì, è meglio parlare di pari opportunità,
più che di giovani architetti, perché questi architetti famosi che
hanno poche occasioni di lavoro, che insegnano ed hanno insegnato
alle università, hanno ignorato intere generazioni di architetti dai
30 ai 40, sino ai 50 anni.
Certo
nella giungla della competizione professionale, homo hominis lupus,
ma questi architetti che protestano insegnano ed insegnavano alle
Università di Architettura, dovrebbero avere una missione, hanno
delle responsabilità nei confronti delle generazioni a cui
insegnano, nei confronti degli allievi. Un tempo c’erano i Maestri
dell’Architettura, oggi ci sono i Professori.
I
Professori che ho conosciuto, non hanno mai voluto fare i Maestri.
E poi gli allievi, la massa degli allievi, la massa degli esami.
Magari si portavano in studio quelli bravi a disegnare a mano libera
o al computer, e quelli che sapevano scrivere e parlare li
prendevano per mandare avanti i corsi delle lezioni all’università.
A qualcuno di questi bisognava fargli vincere almeno un dottorando,
altrimenti scappava. In ogni caso il massimo dello spazio che questi
architetti famosi hanno concesso ai loro allievi è una carriera
universitaria in si diventa ricercatore a 50 anni.
Ci sono anche le carriere fulminanti, ma lì abbiamo l’altra a che
farecon i grandi temi italiani del nepotismo e des
amantes. Nell’era dell’individualismo imperante anche il professore
architetto dice «Aprés Moi, le Deluge», non si sente MAESTRO.
Giuliano da Empoli in un editoriale della rivista «Zero»: «Zero si
chiama così perché parte dal presupposto che l’Italia sia arrivata
al grado zero della capacità di innovazione politica e culturale. Il
nostro è diventato il paese degli Arafat: singoli individui e
collettività organizzate che, al di là dei loro meriti storici,
soffocano ogni possibilità di rinnovamento». Questi Architetti
Professori, al di là dei loro meriti storici, prima di rivendicare
altro da fare, hanno il dovere di affrontare le gravissime
responsabilità che hanno nell’ aver contribuito a soffocare non solo
ogni capacità di rinnovamento in architettura ed urbanistica, ma
anche le giovani menti dei propri allievi architetti di ieri e di
oggi.
Tutto questo soffocamento non riguarda naturalmente solo gli
architetti giovanidi ieri e di oggi, ma un’intera
classe dirigente. Chi avrebbe dovuto preparare questa nuova classe
dirigente? Chi doveva dare opportunità agli allievi? Dove sono i
maestri orgogliosi di trovare giovani talenti? Il maestro era colui
che riusciva a circondarsi delle menti più vivaci, che spesso
mettevano in crisi gli stessi limitati saperi del maestro. Storie
d'altri tempi, oggi abbiamo solo professori molto limitati e poco
inclini a pensare al futuro delle nuove generazioni.
N.B.
Esistono certamente all’interno dell’Università illustri studiosi e
intelligenze capaci e generose. Ma queste menti sono poche e isolate
e comunque subiscono e accettano una logica che nel complesso ha
prodotto un livello qualitativo della formazione universitaria del
tutto mediocre, come sono mediocri i risultati della ricerca.
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Messaggio inviato da Luigi Zanda
Caro Presidente, leggo oggi sul Corriere della Sera
che
numerosi ed importanti architetti italiani hanno inviato alle alte
cariche dello Stato (ed anche al Presidente del Senato Marcello
Pera) un appello con il quale hanno illustrato la “drammatica”
situazione della progettazione nel nostro Paese ed hanno chiesto
sostegno e aiuto. Tra i vari argomenti portati a dimostrazione della
crisi della progettazione, l’appello degli architetti fa anche
riferimento alla sempre maggiore quota di incarichi professionali
che in Italia verrebbero attribuiti ad architetti stranieri.
Ho molte
riserve sulla fondatezza di questa argomentazione. Ritengo,
invece, che l’appello abbia individuato una questione grave e,
purtroppo, assai poco considerata. Una questione che travalica il
campo dell’architettura vera e propria per ricomprendere più in
generale tutte le attività di ingegneria e di progettazione. Il
nostro ordinamento, le istituzioni pubbliche, la politica non
considerano la progettazione per quello che è: il centro e il
cervello di ogni processo di sviluppo, riqualificazione,
ammodernamento, delle nostre città e del nostro territorio.
Così nel
nostro paese si è finito col promuovere una legislazione e una
“politica” che, sostanzialmente, hanno emarginato la progettazione,trascurato
la formazione di corpi tecnici dello Stati qualificati ed
autorevoli, disperso un patrimonio molto consistente di capacità
professionali.
In una
parola, anche in questo campo stiamoportando
avanti una politica contraria al buon governo e all’interesse
nazionale. Il protrarsi di questa situazione determina quella che
gli architetti firmatari dell’appello definiscono la «drammatica»
situazione dell’architettura italiana. Una situazione che danneggia
tutti.
I
progettisti, le stesse imprese, i costi, i tempi di realizzazione,
la qualità delle opere. L’ottava Commissione del Senato ha tra le
sue competenze i lavori pubblici, settore che io considero
fortemente penalizzato, e non da ora, dalle condizioni in cui versa
la progettazione nel nostro paese.
Ti segnalo,
in particolare, che la cosiddetta «legge obiettivo», partita
dal proposito di ridurre i tempi di esecuzione di grandi opere
strategiche (proposito ad oggi consistentemente frustrato) ha dato
un ultimo colpo al «ruolo»indipendente della progettazione. Il
general contractor previsto dalla «legge obiettivo» non solo
realizza l’opera (molto spesso con ampio ricorso al subappalto), ma
anche elabora il progetto ed esercita i poteri di direzione dei
lavori. Con buona pace dei principi generali che vorrebbero (anche a
fini, diciamo così, di trasparenza) la progettazione ben distinta
dalla realizzazione delle opere, il controllore ben separato dal
controllato.
Caro
Presidente, accade spesso che i ritardi, la lievitazione dei costi,
l’impatto negativo degli interventi, siano riconducibili agli
interessi delle imprese realizzatrici. Ma accade ancor più spesso
che nel nostro paese il peccato originale dell’intervento pubblico
consista tutto nella limitatezza degli investimenti (in risorse, in
tempo, in indipendenza, in autorevolezza e nel rapporto con la
pubblica amministrazione) di cui dispone la progettazione.Mi
sembra che sinora l’andamento delle «grandi opere» confermi
questa mia impressione. Credo, quindi, che l’ottava Commissione del
Senato farebbe bene ad occuparsi della vasta problematica segnalata
dall’appello degli architetti e ti sarei molto grato se tu volessi
mettere il tema all’ordine del giorno di una delle nostre prossime
sedute. Ti ringrazio e ti saluto con cordialità.
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Mesaggio inviato da Fabio Riva
Sono un neo
laureato in architetturae
volevo sottolineare come i «mali», le difficoltà dell'architettura
italiana non siano solo da imputare alle famose pastoie burocratiche
ecc.
Tocco con mano la realtà lavorativa e personalmente mi chiedocome
sia possibile farsi strada per un neo-architetto davanti alla
difficoltà di trovare un lavoro, presso uno studio di architettura,
che sia giustamente retribuito dove i giovani non siano solo
impiegati per l'utilizzo di tecnologie informatiche ( vedi disegni a
CAD o rendering ) ma valorizzati per il loro apporto di idee, mi
chiedo come possano emergere i giovani in un contesto tanto avaro se
non si ha neanche la possiblità di programmare il proprio futuro
grazie a stipendi di 800 €, a volte anche vergognosamente piu bassi!
Manca la possiblità di lavorare e di poterlo
faremotivati
con un minimo di stipendio adeguato! Questo insieme ai ritardi alla
burocrazia ai veti ad una committenza per nulla illuminata permette
all'architettura italiana di non emergere nel proprio paese. E' vero
importante e fondamentale sarà lo snellimento delle pastoie
burocratiche ecc, ma non dimentichiamoci di valorizzare e di puntare
sui giovani architetti bravi e numerosi e presenti.
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Messaggio inviato da Daniela Rotondo
Mi
riferisco all'articolo odierno «architetti in rivolta....»;
l'argomento purtroppo è molto più ampio di quanto non si voglia far
credere e quindi non penso utile dilungarsi su certi aspetti più di
dettaglio che la stragrande maggioranza degli architetti italiani
meno famosi conosce ma la gente comune meno; tuttavia mi preme
sottolineare che sono stupito che i firmatari di questa rivolta
siano alcuni degli esponenti più di spicco o che meglio si son
riusciti a imporre nel campo architettonico e che son stati per anni
a guidare facoltà di architettura e a gestire la nostra cultura
architettonica.
Non
possiamo continuare a ribaltare ad altri le nostre responsabilità.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa la maggioranza degli architetti
italiani e se questi non pensino che la prima causa di questi
risultati non siano proprio università e ordini professionali. d'
altronde Renzo Piano già qualche decennio fa sollevò l'insofferenza
di essere architetti in italia. Grazie Soloni universitari grazie
politici inadeguati.
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Messaggio inviato da Pietro Pagliardini
L'appello
firmato da un gruppo di architetti appartenentiallo
stars system dell'architettura italiana contro l'invadenza di
colleghi stranieri, commentato ieri piuttosto ironicamente dal
Corriere, è la cartina al tornasole del livello culturale del nostro
paese: si individua un obbiettivo da colpire senza comprendere che
in realtà il problema è tutt'altro e cioè un'architettura al cui
centro c'è l'architetto anzichè il progetto e l'opera.
Questo
sistema, di cui una parte dei firmatari sono responsabili,attraverso
le università, le riviste in cui se la suonano e se la cantano, i
concorsi in cui compaiono come commissari e in cui vengono
priviligiati gli allievi, i seguaci o gli estimatori(pronti a
restituire il favore in un concorso a parti invertite)è un circolo
chiuso difficilmente penetrabile e non necessariamente in base al
merito.
Adesso in questo circuito sono entrati, prepotentemente come era
prevedibilein un mondo globale, altri, gli «stranieri»
e i nostri nobili sentono che si avvicina la decadenza (ma alcuni
fasti restano, eccome. La reazione corporativa è inutile, dannosa
alla categoria degli architetti e all'immagine del nostro paese, di
cui alcuni dei firmatari decantavano, fino a poco tempo fa, le
meravigliose aspettative per l'ingresso in Europa (perchè si
allargava il mercato?). Lo stars system premia i progettisti non il
progetto, la griffe non l'opera. Se l'architettura è parificata alla
moda, vincerà sempre la «firma» più forte, quella che riesce a porsi
sul mercato in termini più desiderabili, che abbia più appeal, che
abbia strategie di marcketing più aggressive e penetranti, non
necessariamente quella che abbia il prodotto migliore. Era così
anche quando erano in voga i firmatari, è così adesso con gli
«stranieri».
Avrei
preferito una riflessione più profonda invece che quell'appello
il quale ha anche il demerito di attribuire alle
sovrintendenze responsabilità sproporzionate rispetto al problema,
senza tenere conto dei meriti, grandi, che queste hanno avuto nel
salvaguardare i nostri centri storici dagli emuli delle stars e,
talvolta, dalle stars stesse. Non troviamo tra i firmatari del'appello
R.Piano e M. Fuksas, cioè le due attuali stars del firmamento
italiano che esportano all'estero: è solo un caso o è la riprova di
quanto detto sopra? Cordiali saluti
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Messaggio inviato da Salvatore
Fiorentino
Come
cultore dell'architettura ho trovato assolutamente sconcertante
l' iniziativa di un gruppo di importanti architetti italiani che non
riuscendo a competere con i colleghi stranieri non trova di meglio
che protestare con le massime cariche dello Stato.
È vero che
l'Italia è certamente il Paesedove
è più difficile fare architettura ma se gli stranieri si affermano
anche nel Belpaese vuol dire che, in questo periodo storico, sono
notevolmente più bravi.
Osservo,
peraltro, che i leader della protesta sono tutti docenti
universitari,
forse frustrati da un'attività teorica che non riesce a tradursi in
architetture significative e della validità della quale, a questo
punto, mi pare lecito dubitare. Non a caso i maggiori architetti
italiani contemporanei (Renzo Piano e Massimiliano Fuksas),
affermati e apprezzati in tutto il mondo, non sono degli accademici
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Messaggio inviato da Vittorio Gregotti
Ho letto
l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì 7
settembre dal titolo “Architetti in rivolta, invasi da
progetti stranieri”, e devo subito dire che se l’appello di Paolo
Portoghesi può dar luogo ad interpretazioni come quelle (certamente
in buona fede) di Pierluigi Panza, mi pento subito di averlo
sottoscritto; per alcune ragioni.
Anzitutto
l’internazionalismo critico, come io lo definisco,
è uno dei fondamenti del progetto moderno(e dietro di esso
dell’intera cultura europea) a cui io credo si debba essere fedeli.
Internazionalismo critico naturalmente è qualcosa di assai diverso
dall’ideologia del globalismo dei mercati e delle tecniche, delle
inutili bizzarrie e della riduzione dell’architettura ad immagine.
In secondo luogo credo che sia un errore individuare nelle
sovrintendenze l’ostacolo ad uno sviluppo italiano
dell’architettura. Dovremmo chiedere che esse siano meglio dotate di
strumenti e di mezzi, che il loro personale sia meno burocratizzato
e culturalmente più qualificato. Alle sovrintendenze dobbiamo
comunque moltissimo per quanto riguarda la salvaguardia del nostro
patrimonio: forse sono meno attrezzate per giudicare delle qualità
delle opere moderne ma questo è un ragionamento assai diverso.
In terzo
luogo chi deve essere messo sotto accusa per l’ «invasione
dello straniero» (che io straniero non considero) è la struttura dei
concorsi ed il basso livello culturale di molte amministrazioni
pubbliche. Anch’esse hanno qualche scusante. Premiare uno straniero
significa per loro accodarsi alla falsa idea che la qualità
dell’architettura sia un problema di marketing e che quindi convenga
premiare architetti che sono internazionalmente alla moda. E qui si
inseriscono anche le responsabilità dei mezzi di comunicazione di
massa e della loro fissazione per la presunta novità anziché per il
giudizio. Infine premiare uno straniero significa (al di là
dell’esterofilia snobistica ben presente) anche evitare di prendere
posizione (anche politica) nelle discussioni del nostro paese; e
questo per un’amministrazione è sempre comodo. Infine vi è la
questione della competenza nelle giurie dei grandi concorsi, una
questione che in Italia si va ogni giorno aggravando, e che ha
gravissime responsabilità, tanto da far sperare sovente che agli
esiti non seguano le realizzazioni. Come si vede, tutto questo non
ha a che vedere con una difesa sindacale o nazionalista che
personalmente rifiuto.
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Messaggio inviato da Manfredi Nicoletti.
Professore Ordinario di Progettazione Architettonica Presso
l'Università La Sapienza, Roma
Si ai progettisti “stranieri” in Italia,
ma attraverso concorsi aperti e leali
Non ci sono
più «stranieri». Siamo tutti egualmente partecipi di un unico
mondo globalizzato. Che molti architetti stranieri lavorino in
Italia non è uno scandalo. Lo scandalo è che lo facciano grazie al
comportamento ai limiti della legalità delle Pubbliche
Amministrazioni o di chi gestisce opere che, di fatto, sono opere
pubbliche.
La legge sulle Opere Pubbliche in Italia impone di bandireun
concorso per la scelta del Progetto da realizzare, quando il suo
importo superi una certa soglia. Questa norma, che è sia
giuridica che morale, è spesso aggirata con la scusa che il
finanziamento proviene da soggetti privati. Ma la sentenza del
12 luglio 2001 della Corte di Giustizia Europea ha chiarito che
l’obbligo del concorso europeo deriva non dalla provenienza del
finanziamento, ma dal pubblico interesse dell’opera.
In tal
caso l’invito alla partecipazione di progettisti stranieri
è non solo un dovere, ma anche un indispensabile strumento per i
progettisti e per tutti i cittadini italiani ed europei per
confrontare soluzioni diverse, capire più a fondo il tema,
incentivare concezioni progettuali d’eccellenza. E’ questa
evasione delle regole che danneggia l’ambiente fisico,
intellettuale e morale dell’Italia.
E’ da
questa evasione che derivano oscenità urbanistichecome
quella dell’Ara Pacis a Roma, un’opera pubblica affidata
arbitrariamente, dai vertici capitolini, a un ottimo architetto
americano, ma insensibile all’ambiente della Roma storica. Si è
così operato impunemente e malamente nel tessuto antico di Roma,
che non appartiene a una giunta comunale, ma all’Italia e alla
cultura mondiale. Ora lo scempio è compiuto. L’insensibilità e
il provincialismo hanno vinto malgrado le proteste più che
autorevoli. Il Mausoleo d’Augusto è oscurato per sempre. Sembra
che anche la futura Città dello Sport, sempre a Roma, sarà
affidata senza concorso a uno «straniero». Il malcostume è
dunque insanabile?
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Messaggio inviato da Ettore Sottsass
Gentile
Paolo Mieli, spero voglia pubblicare questo mio chiarimento.
Sul Corriere della Sera del 7 settembre ho letto un articolo di
Pierluigi Panza nel quale mi si coinvolge vastamente nella protesta
di trentacinque architetti italiani allarmati «dall’invasione degli
architetti stranieri» e «in difesa della tradizione italiana». La
colpa viene data al potere assoluto dei sovrintendenti i quali
appunto, si sentono i difensori assoluti di questa tradizione.
In realtà nella lettera dell’architetto Paolo Portoghesiche
ho firmato, non si accenna minimamente a questo aspetto di rabbietta
corporativa degli architetti italiani per ridurre la partecipazione
straniera, per potere avere più spazio di lavoro. Nella lettera che
ho firmato si parla piuttosto della preoccupazione che «si
interrompa la continuità di una ricerca che ebbe inizio negli anni
’30 del Novecento per opera di un gruppo di architetti di cui oggi
si celebra in ambito internazionale la capitale importanza per lo
sviluppo della modernità in architettura; uomini come Terragni,
Gardella, Albini, Scarpa, Samonà, Libera, Ridolfi».
Si parla anche con una certa veemenza della necessità di
provvedimenti« che riducano l’inerzia
dell’apparato burocratico e consentano libero accesso ai
concorsi al di là di selezioni basate esclusivamente sul lavoro
già compiuto, selezioni che precludono alle nuove generazioni
l’accesso agli incarichi più significativi e bloccano così il
vitale ricambio generazionale». Chi fa queste selezioni? Ho
firmato quella lettera, che approvo, ricordando anche tuttavia
alcuni esempi recenti di enormi progetti affidati non tanto ad
architetti italiani o stranieri, ma a grandi concentrazioni del
potere economico, italiano e straniero, che certamente non si
distinguono per interessi intellettuali. Ma anche di questo
aspetto, che non riguarda l’architettura ma il business
internazionale, nell’articolo non si fa cenno.
Caro
Direttore, se ha avuto la pazienza di leggere la mia
precisazione mi permetto anche di allegarle la risposta
che ho inviato, insieme alla mia adesione, all’architetto
Portoghesi, di cui sono amico: Caro Paolo, ecco la mia copia
firmata. Penso che la situazione dell’architettura italiana
riguardi gli architetti ma soprattutto riguardi la miserabile
qualità intellettuale dei politici e quindi della politica
italiana. Forse dobbiamo convincerci che siamo una nazione ai
bordi dell’impero e che certamente non abbiamo in questo
momento, come nazione, la possibilità di partecipare allo
strano, barbarico, progetto della contemporaneità.
Personalmente non ho grandi speranze; sono solo e riesco
a muovere, quando riesco, microscopiche pedine. Tanto per fare
qualcosa. Va tutto bene. Con questa lettera a Portoghesi non
sottoscrivo nessun possibile aspetto corporativistico della
protesta ma quel tanto che resta da pensare ancora sul futuro
dell’architettura al di là del business. Aggiungo una piccola
nota personale: dopo circa sessanta anni di professione, ho
costruito una sola casa privata in Italia e circa una quindicina
di “architetture” per privati stranieri, in Giappone, in Cina,
negli Stati Uniti, a Singapore, in Belgio e in Svizzera. Posso
contare inoltre un’altra quindicina di progetti, sempre per
clienti stranieri, non eseguiti. A parte questo, sono stato e
sono grande amico di moltissimi artisti, intellettuali, poeti,
cantori e architetti stranieri; ad alcuni devo molta
riconoscenza per l’aiuto professionale e per l’amicizia che mi
hanno sempre offerto.
Non
sono per niente contrario alla presenza in Italia di
grandi o piccole architetture progettate da noti e bravissimi
architetti stranieri. Come ho già detto, mi sento invece
assolutamente inerme di fronte al paesaggio miserabile del
futuro provinciale dell’italianità. La saluto cordialmente
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Messaggio inviato da Giorgio Nocerino
Con riferimento agli articoli del «Corriere della sera»
pubblicati in cronache del 07 e del 08/09/05, “ basta con gli
stranieri, architetti divisi ”, e seguiti da relativo dibattito,
vorrei fare alcune considerazioni. E’ vero, in Italia molti progetti
di architettura sono stati affidati a firme di famosi architetti
stranieri, con il conseguente (e giustificato) risentimento da parte
degli studi italiani.
Tuttavia
penso che ci sia una responsabilità da parte degli stessi architetti
italiani, che si lamentano e che insegnano nelle varie
Università. Infatti, è compito proprio delle Università, quello di
formare l’ “eccellenza”, per sfidare la concorrenza delle varie
“star” dell’architettura, ormai mondiale. Per lo più, invece, i
corsi universitari si sono trasformati in diffusori delle opere di
quei maestri dell’architettura, che poi dopo si vogliono contestare.
Se in Italia sono in molti a registrare un reale impoverimento della
classe professionale, lo si deve anche a coloro che, impigriti nei
loro aurei recinti, non hanno saputo programmare il futuro
dell’architettura e dell’arte italiana nell’era della globalità.
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Messaggio inviato da Guido Pietropoli
Ci sono situazioni in cui mai ci sarebbe aspettati
di vedere
certe persone assieme: così, nella lettera al Presidente Ciampi di
altolà all’invasione degli architetti stranieri, nella falange dei
trentasei primi firmatari ci sono i nomi di P. Portoghesi e V.
Gregotti.
Cosa
abbiano in comune le loro architetture non è dato saperlo ma
è ancora più oscura quale certificazione D.O.C. i loro edifici
possano esibire al di là del numero civico dei rispettivi studi
professionali. Sarebbe interessante aprire un dibattito sullo stato
di salute e sull’attuale identità (o meno) dell’architettura
italiana. Per contro, è facile concordare con Pio Baldi su quanto
egli afferma di Scarpa, Ridolfi ma anche Albini, Gardella, Moretti
e, non ultimo, il gran lombardo ancora operante Luigi Caccia
Dominioni.
Il
magistero di questi illustri personaggi
come la loro dedizione artigianale al mestiere e il
radicamento dei loro edifici all’identità dei luoghi sono
indiscussi. Senza facili rimpianti, si tratta di personaggi di altri
tempi ma essi sì veramente architetti italiani.
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Messaggio inviato da Isabella Guarini
Ho letto con interesse il messaggio di protesta
sottoscritto da noti architetti italiani,docenti nelle più
importanti sedi universitarie. Tra essi ho riconosciuto alcuni da
cui ho ricevuto insegnamenti durante gli studi universitari e resto
sorpresa dal ritardo con cui palesano il malessere dell'architettura
italiana. Tuttavia, condivido la protesta specialmente in
riferimento al fatto che gli incarichi sono affidati a chi ha già
avuto esperienza e possiede un portfolio miliardario. In questo modo
si vanifica l'unico strumento di selezione per professionisti che è
il concorso.
Infatti, è
in voga il concorso con procedura ristretta con cui si
scelgono i nomi dei progettisti non in base al progetto presentato
ma in base a criteri economici e strumentali, che di per sè non
garantiscono la qualità dell'architettura. In questo modo si
escludono tutti, specialmente nel Sud dell'Italia. Non condivido,
invece, la tendenziosa accusa alle Soprintendenze, che, per quanto
appare dal testo del messaggio, sarebbero state colpevoli di aver
impedito la realizzazione in Italia di opere d'architettura
signficative, impedendo agli architetti di formarsi e resistere
all'impatto della concorrenza globale.
Penso che lo scontro tra antico e nuovo nel nostro paesesia
più aspro che in altri per il fatto che esso è caratterizzato dal
più alto indice di monumentalità architettonica, artistica e
paesaggistica.Per questo gli architetti devono confrontarsi
continuamente con il contesto e, talvolta, rinunciare a imprese
fortemente innovative per rispetto della memoria storica. Gli
architetti dello star system internazionale invece hanno costruito
le opere che li hanno resi famosi in situazioni deboli sul piano del
contesto storico- artistico, ma forti dal punto di vista economico.Infine,
mi sembra giusto il richiamo all'architettura italiana,in quanto
risveglio del senso dell'appartenenza, ma non mera imitazione di
quanto viene fatto in altri contesti.
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Messaggio inviato da Michele Sacerdoti
Non sono architetto ma sono membro di
due commissioni edilizie di circoscrizione e sono molto coinvolto
nell'edilizia e urbanistica milanese insieme a associazioni di
tutela e ambientaliste e ad associazioni spontanee di cittadini
milanesi. Credo che non abbia alcun senso parlare di architetti
italiani e stranieri ma solo di architettura rispettosa o no del
contesto.
Condivido il messaggio di Isabella
Guarini per quanto riguarda la monumentalità italiana e il confronto
con il contesto. Non sono entusiasta delle opere degli anni trenta
in Italia e quindi non ritengo che si debba a tutti i costi favorire
lo sviluppo di questa linea di ricerca e peraltro non ritengo valide
alcune opere dei firmatari dell'appello. Mi sembra giusto che nei
concorsi non debbano essere data tanta importanza alle opere già
realizzate, scartando così architetti che non hanno avuto la
possibilità delle star di progettare ovunque nel mondo.
Mi sembra invece vergognoso l'attacco
alle Sovrintendenze, che è una struttura che molti ci cinvidiano
all'estero e che hanno contribuito a difendere i centri storici e il
paesaggio italiano dall'assalto dell'architettura moderna. Invece di
sminuirne i poteri e le risorse andrebbero potenziate come personale
e mezzi. Ho dovuto spesso ricorrere al loro intervento per impedire
la realizzazione di opere che avrebbero creato scempi nel centro
storico. Purtroppo sono anch'esse sottoposte a pressioni e finiscono
per essere "forti con i deboli e deboli con i forti". Un esempio per
tutti l'intervento dell'arch. Botta sulla Scala di Milano,
fortemente contestato dai milanesi più sensibili all'immagine della
città e approvato dal Comitato di Settore del Ministero dei Beni
Culturali a Roma a fronte della perplessità della Soprintendenza di
Milano. Forse è questo che vogliono i firmatari dell'appello, poter
aggirare i dinieghi delle soprintendenze locali tramite un organismo
romano più malleabile.
Peraltro Pansa non ha citato nel suo
articolo il progetto per il recinto fieristico della Fiera dove
a tre star internazionali, Libeskind, Hadid e Isozaki, si è
affiancato l'italiano Maggiora. Un progetto contestatissimo da
parte dei residenti e di molti architetti italiani, che non si
sa se definire italiano o straniero ma è sicuramente peggiore di
quello di Renzo Piano. Non è un'opera pubblica in quanto la
Fondazione Fiera proprietaria dell'opera è privata ma è stato
fatto un finto concorso, in cui ha vinto chi ha offerto di più
per il terreno. E in base al risultato di questo "concorso" il
Comune non vuole respingere il progetto o chiederne la radicale
modifica. Ma qui il problema non è la buona o cattiva
architettura o il concorso, ma il fatto che il Comune non ha
dato alcuna prescrizione sulla distribuzione degli edifici o
sulla loro altezza massima, rinunciando al suo compito di
pianificazione della città. E' il cosiddetto "Metodo Milano" in
cui si scelgono alcuni progetti e poi vince chi offre la cifra
più alta. Lo si vuole ora esportare in tutta Italia. Ecco perché
per me l'appello non ha alcun senso, bisogna invece rinforzare
le Soprintendenze e il potere di pianificazione pubblica, in
modo che i concorsi abbiano chiare prescrizioni, definite
ascoltando i residenti in modo democratico e partecipato, con
commissioni che siano in grado di valutare tutti gli aspetti dei
progetti, non solo quelli più appariscenti.
A Berlino ad esempio il Comune
obbliga gli architetti a progettare in un certo modo,
indipendentemente dalla loro fama. Gli architetti non possono
pretendere di essere i padroni del mondo e fare quello che
vogliono: le loro opere durano anni e poi tutti le devono
subire, non fanno esperimenti in laboratorio o nei musei ma sul
territorio che è di tutti. Il Parlamento, invece di occuparsi
dell'appello, farebbe meglio a bloccare la nuova legge
urbanistica Lupi-Mantini che darà ai privati il potere di
pianificare lo sviluppo delle città.
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Lettera inviata da Manfredi Nicoletti,
professore Ordinario di Progettazione Architettonica Presso
l’Università La Sapienza, Roma Vice Presidente dell’International
Academy of Architecture
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Caro Dr. Romano,
Il Corriere della Sera ha ospitato la
firma di Pierluigi Panza allo «scandalo» dovuto all’invasione
professionale degli architetti stranieri in Italia. Vorrei
aggiungere la mia opinione. In architettura, gli «stranieri» non
esistono più. Apparteniamo tutti a un unico mondo globalizzato. Che
molti architetti stranieri lavorino in Italia non è uno scandalo. Lo
scandalo è che lo facciano grazie al comportamento ai limiti della
legalità delle Pubbliche Amministrazioni o di chi gestisce opere
che, di fatto, sono opere pubbliche. La legge sulle Opere Pubbliche
in Italia impone di bandire un concorso per la scelta del Progetto
da realizzare, quando il suo importo superi una certa soglia.
Questa norma è spesso aggirata con la
scusa che il finanziamento o l’iniziativa proviene da soggetti
privati. Ma la sentenza del 12 luglio 2001 della Corte di Giustizia
Europea ha chiarito che l’obbligo del concorso europeo deriva non
dalla provenienza «pubblica» o privata del finanziamento, ma dal
pubblico interesse dell’opera. In tal caso l’invito alla
partecipazione di progettisti stranieri è non solo un dovere, ma
anche un indispensabile strumento per i progettisti e l’opinione
pubblica per confrontare soluzioni diverse, capire a fondo il tema,
incentivare concezioni d’eccellenza. E’ questa evasione delle regole
che danneggia l’ambiente fisico, intellettuale e morale dell’Italia.
E’ da questa evasione che derivano
oscenità come quella dell’Ara Pacis a Roma, un’opera pubblica
affidata arbitrariamente, dai vertici capitolini, a un ottimo
architetto americano, ma insensibile all’ambiente della Roma
storica. Si è così operato impunemente e malamente nel tessuto
antico di Roma, che non appartiene a una giunta comunale, ma
alla cultura mondiale. Ora lo scempio è compiuto. La
disinvoltura e il provincialismo hanno vinto e continuano a
vincere ovunque. Sembra che anche la futura Città dello Sport,
sempre a Roma, sarà affidata senza concorso a uno «straniero» o
a un altro «raccomandato». Il malcostume è insanabile?
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Messaggio inviato da Carmela Riccardi
Nellapuntata radiofonica della seconda
edizione de L’era urbana andata in onda su RADIO RAI 3 lo scorso 23
maggio Gregotti intervistato, nell’ambito della puntata dedicata
alle trasformazioni urbanistico-architettoniche di Milano,
dichiarava, riferendosi ai grandi progetti che stanno ridisegnando
lo sky linedella città lombarda ad opera di illustri colleghi
stranieri (Libeskind, Hadid, Pelli, Pei, ..) che l’Italia sta
diventando un paese del 3° mondo, un territorio in via di
colonizzazione da parte di prestigiose firme straniere che, grazie
anche all’abuso della tipologia a torre/grattacielo proposta nei
loro progetti in Italia, si stanno appropriando delle nostre città.
A tali critiche Zaha Hadid rispondeva irritata sostenendo che tutta
l’Italia è fatta di torri, basti pensare ai campanili delle chiese o
a alla Torre di Pisa. Questo battibecco a distanza e in differita
visto che le interviste erano registrate sembrava un episodio
singolo destinato a consumarsi all’interno di un dibattito
circoscritto ad un ambito locale seppur importante come quello di
Milano. Invece stando all’articolo apparso oggi sul Corriere della
Sera(a firma di Pierluigi Panza) quelle che all’epoca poteva
sembrare solo l’esternazione personale di un professionista escluso
da progetti importanti per la sua città, si è dimostrato il segno
anticipatore di un malessere condiviso e organizzato da un gruppo di
architetti italiani che in 35 uniti dalla raccolta di firme
denunciano lo strapotere in territorio nazionale dei colleghi
stranieri e difendono la «irrinunciabile risorsa culturale, che non
può essere ulteriormente vanificata e ignorata».Ma chi sono questi
giovani ribelli che protestano per le rare opportunità di lavoro e
per l’invasione di progetti stranieri? Da quali radici culturali
muove il loro messaggio sovversivo? Rappresentano una nuova frangia
di estrema destra o un gruppo di attivisti no-global? Sono un nuovo
movimento universitario o la cellula impazzita di qualche Ordine
professionale che, a pochi giorni dalle elezioni (provinciali e
nazionali), esce allo scoperto con un disegno destabilizzante
finalizzato a creare disordine e magari tentare di condizionare gli
esiti delle votazioni democratiche dei nuovi Consigli? Con sorpresa
scopriamo che i caporioni di questa brigata di sciovinisti
rivoluzionari sono lo stesso Vittorio Gregotti (classe 1927) seguito
da Paolo Portoghesi (classe 1931), Guido Canella (classe 1931),
Ettore Sottsass (classe 1927?), Antonio Monestiroli (classe 1940),
per fare solo alcuni nomi di coloro i quali hanno aderito con la
loro firma a questo appello tra l’altro inviato ai presidenti della
Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato. Da questo appello
sembra che la situazione «drammatica»in cui versa la «cultura del
progetto» in Italia sia dovuta al fatto che si privilegiano i
progettisti stranieri piuttosto che quelli italiani perché questi
hanno avuto la possibilità di acquisire competenze grazie alla
realizzare grandi opere «di interesse sociale» agevolate anche dalle
politiche di sviluppo dei loro paesi - cosa che in Italia non è
accaduto privando così i professionisti nostrani di analoghe
«occasioni di lavoro». Questo condizione di stallo è stata poi
spiegata denunciando il potere con cui le soprintendenze che in modo
anacronistico esercitano ancora oggi e da anni il loro veto nei
confronti di «molte opere significative rimaste sulla carta».
(Questo stato delle cose verrebbe superato se in sede ministeriale e
precisamente all’interno del DARC (…) si attivasse una «commissione
pluralistica» che potesse attivarsi come supervisore delle singole
realtà locali così da ridimensionare lo «autonomismo» decisionale
delle incriminate soprintendenze. Tesi che viene condivisa anche da
Mario Botta che dice «…La figura del soprintendente è un po’
arcaica, borbonica, va riformata se crediamo che il progetto sia ciò
che trasforma la città». Ma vediamo chi sono. È solo colpa delle
soprintendenze o sono stati loro a contribuire a …? Quando vincono i
concorsi loro non c’è problema ma se vincono gli altri (vedi O.
Benini)? Sanno in grado di progettare la città? Capire come hanno
fatto a costruire in Italia…Perché adesso?…eliminerei) E’ forse
plausibile che questi illustri firmatari, alcuni sulla scena da
mezzo secolo, non hanno a che fare con le cause e gli effetti del
disastro culturale architettonico e urbanistico italiano che essi
stessi denunciano? Il disastro culturale è frutto solo dei veti dei
poteri borbonici della soprintendenza, dei veti burocratici delle
Amministrazioni, e di quanti non hanno la segreta sensibilità al
progetto in Italia, che solo i firmatari sembrano avere? (proposta
d’inserimento) Si tratta di architetti famosi e professori
universitari che di opere in Italia ne hanno firmate, e di
opportunità ne hanno avute. Hanno progettato e realizzato, qualcosa
è venuta bene, altre meno. Ma cosa vogliono? Quante altre
opportunità vogliono? Hanno forse pensato a dare spazio ai loro
allievi nelle Facoltà di Architettura? Hanno pensato a fornire ai
loro studenti una preparazione adeguata per competere
professionalmente sullo scenario globale? Solo un paio i grossi nomi
italiani che competono all’estero grazie a fabbriche fordiste di
giovani architetti «meticci». Questi nostri famosi professori
architetti hanno forse pensato che in Italia esistono architetti
«giovani» e meno giovani con zero opportunità di lavoro? Hanno forse
protestato perché gli Ordini degli Architetti non fanno alcuna
politica di «pari opportunità» per i giovani e meno giovani? Sì, è
meglio parlare di pari opportunità, più che di giovani architetti,
perché questi architetti famosi che hanno poche occasioni di lavoro,
che insegnano ed hanno insegnato alle università, hanno ignorato
intere generazioni di architetti dai 30 ai 40, sino ai 50 anni.
Certo nella giungla della competizione professionale - homo hominis
lupus- ma questi architetti che protestano insegnano ed insegnavano
alle Università di Architettura, dovrebbero avere una missione,
hanno delle responsabilità nei confronti delle generazioni a cui
insegnano, nei confronti degli allievi. Un tempo c’erano i Maestri
dell’Architettura, oggi ci sono i Professori. Molti Professori da
tempo non hanno voglia di fare i Maestri. E poi gli allievi, la
massa degli allievi, la massa degli esami. Magari si portavano in
studio quelli bravi a disegnare (per quattro soldi) a mano libera o
al computer, e quelli che sapevano scrivere e parlare li prendevano
per mandare avanti i corsi delle lezioni all’università. A qualcuno
di questi bisognava fargli vincere almeno un dottorato, altrimenti
scappava. In ogni caso il massimo dello spazio che questi architetti
famosi hanno concesso ai loro allievi è una carriera universitaria
in cui si diventa ricercatore a 50 anni. Ci sono anche le carriere
fulminanti, ma lì abbiamo l’altra a che fare con i grandi temi
italiani del nepotismo e des amantes. Nell’era dell’individualismo
imperante anche il professore architetto dice «Aprés Moi, le Deluge»,
non si sente MAESTRO. Giuliano da Empoli in un editoriale della
rivista Zero(nr. 1/2005, «L’Italia di plastica» Marsilo Editore) -
si chiama così perché parte dal presupposto che l’Italia sia
arrivata al grado zero della capacità di innovazione politica e
culturale – dichiara: «Il nostro è diventato il paese degli Arafat:
singoli individui e collettività organizzate che, al di là dei loro
meriti storici, soffocano ogni possibilità di rinnovamento.»
Questi Architetti Professori, al di
là dei loro meriti storici, prima di rivendicare altro da fare,
hanno il dovere di affrontare le gravissime responsabilità che
hanno nell’ aver contribuito a soffocare non solo ogni capacità
di rinnovamento in architettura ed urbanistica, ma anche le
giovani menti dei propri allievi architetti di ieri e di oggi.
Tutto questo soffocamento non riguarda naturalmente solo gli
architetti giovani di ieri e di oggi, ma un’intera classe
dirigente. Chi avrebbe dovuto preparare questa nuova classe
dirigente? Chi doveva dare opportunità agli allievi? Dove sono i
maestri orgogliosi di trovare giovani talenti? Il maestro era
colui che riusciva a circondarsi delle menti più vivaci, che
spesso mettevano in crisi gli stessi limitati saperi del
maestro. Storie d'altri tempi, oggi abbiamo solo professori
molto limitati e poco inclini a pensare al futuro delle nuove
generazioni.
N.B. Esistono certamente all’interno
dell’Università Illustri Professori-Maestri, Studiosi e
Intelligenze capaci e generose. Ma queste menti sono poche e
isolate e comunque subiscono e accettano una logica che nel
complesso ha prodotto un livello qualitativo della formazione
universitaria del tutto mediocre, come sono mediocri i risultati
della ricerca in Italia.
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Messaggio inviato da Anonimo: mail@exposurearchitects.com
Vi scrivo in relazione agli articoli
riguardanti l'invasione degli architetti stranieri in Italia.
Ritengo che da tempo ormai i firmatari del documento appartengano al
passato, e la lettera inviata al presidente del consigli e della
repubblica testimonia la loro incapacità di adeguarsi all'evoluzione
dell'architettura, sia in Italia che all'estero. Il mondo infatti
appartiene sempre più ai giovani, anche se in architettura questo è
vero solo in parte. Da qualche tempo ci sono una serie di studi di
architettura italiani, i cui membri si sono formati sia in Italia
che all'estero, e di cui alcuni quotidiani finalmente danno notizia,
che sicuramente non vivono il malessere dei grandi vecchi, firmatari
della lettera. Si chieda loro cosa ne pensano del problema. Lasciamo
i padri dell'archiettura invecchiare tranquillamente nei loro uffici
circondati dai bellissimi progetti che hanno fatto in giovinezza, e
diamo spazio alle forze nuove che esistono in Italia e forse il
problema da loro indicato non si porrebbe nemmeno...Botta poi è
svizzero, forse se n'è dimenticato.
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Messaggio inviato da Claudio De Albertis,
presidente dell'Ance
«Gregotti ha quasi ragione». In italia i
progettisti, ingegneri ed architetti, non hanno avuto per lungo
tempo occasioni per sperimentare una estetica contemporanea e,
coerentemente, una competenza tecnica aggiornata. Ed ora di fronte
ai competitors internazionali che improvvisamente incontrano il
favore di sindaci ed assessori spesso piu’interessati all’audience
che le architetture spettacolari e gli architetti dello star system
garantiscono. Del resto il mercato aperto si fonda su di una
competizione oggettiva regolata sulle leggi della domanda ed offerta
e non e’ questo il meccanismo da mettere in discussione.
Merita invece riflettere sui confini di
questo fenomeno che vanno davvero oltre un problema di difesa
corporativa di una categoria professionale. La colpa prima di tutto
non e’ imputabile soltanto alle Soprintendenze, quanto a tutta
l’Amministrazione Pubblica che, sia
a livello locale che centrale, ha dato priorita’ assoluta alla
conservazione piuttosto che alla sperimentazione di nuovi
modelli insediativi corrispondenti ai nuovi stili di vita. E’
infatti troppo facile invocare il peso della grande tradizione
storica dell’architettura del nostro paese che avrebbe inibito
la capacita’ creativa dei progettisti e giustificato il mancato
confronto di un’espressione estetica originale e contemporanea
con le grandi architetture del passato. Certo e’ piu’ facile
essere Frank Gery a Miami che in piazza dei Miracoli a Pisa, ma
la Casa del Fascio di Terragni a fianco del Duomo di Como e’
ancora oggi un riferimento per i giovani architetti di tutto il
mondo e Roma, la citta’ storica piu’ significativa in assoluto,
e’ un mosaico di culture differenti e spesso contrastanti,
frammenti di ogni epoca accostati e sovrapposti in una scena
urbana di grande ricchezza. In questo quadro i nostri
progettisti e tecnici hanno soprattutto maturato esperienze di
recupero o di costruzione in analogia con il patrimonio edilizio
esistente. Per 40 anni non hanno quasi mai avuto la possibilità
di azzardare proposte espressive alternative che potessero anche
costituire occasioni di riflessione e crescita per tutto il
settore delle costruzioni.
Questo vale infatti, e forse piu’
gravemente, anche per l’industria delle costruzioni. Il sistema
produttivo e’ strutturato su tecniche, professionalità,
strumenti e materiali che sono gli stessi del passato. Poco
nella maggior parte dei nostri cantieri e’ cambiato.
Parallelamente al disagio dei progettisti italiani va quindi
rilevato oggi anche un problema di aggiornamento dell’intero
settore. Nelle citta’ si e’ incentivata la ristrutturazione di
edifici obsoleti invece di favorire la loro sostituzione con
manufatti più adatti alla domanda e anche le ultime proposte
legislative sono viziate da una
matrice di riferimento obbligato, la ‘coerenza con la citta’
storica’. Una coerenza che è condivisibile se riferita alle
parti autenticamente storiche della città, ma che diventa
inutile e dannosa se applicata a tutto ciò che ha più di 50
anni.
La tanto discussa legge lombarda
sui sottotetti, ad esempio, si applica, con macchinose
regole compositive, sui locali con tetti a falde inclinate e
non e’ invece praticabile con una copertura piana. Un
indubbio vantaggio volumetrico, di fatto un aumento di
superficie urbanistica, e’ condizionato dalla presenza di un
manufatto ormai obsoleto e condizionante, il tetto a falde
spioventi, ma in un certo senso riparatorio rispetto ad una
conformita’ morfologica consueta.
Ovvero nella ‘Valutazione di
impatto paesistico’, che ormai e’ richiesta per quasi tutti
gli interventi, la matrice che regola l’impatto di una nuova
costruzione sul contesto porta ad un risultato piu’
favorevole alla procedura autorizzativa dell’intervento se
lo stesso mantiene i caratteri architettonici, lo stile, I
materiali, del tessuto urbano in cui si inserisce. Senza poi
dimenticare l’obbligo, nei casi di interventi di
ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, del fedele
mantenimento della sagoma esistente dell’edificio. Questa
situazione si e’ in parte rovesciata con l’ultima campagna
di opere pubbliche e interventi di grandi dimensioni legati
ai concorsi internazionali di progettazione, dove invece e’
stata improvvisamente premiata un’architettura spettacolare
e schiere di architetti internazionali hanno avuto mano
libera nel proporre di mutare radicalmente l’immagine delle
nostre citta’, prima gelosamente conservate per decenni.
Costruzioni di vetro e titanio con costi di manutenzione
altissimi, bilanci energetici squilibrati, vivibilita’
dubbia, compatibili solo con poche funzioni pubbliche o con
funzioni private di alta rappresentanza. Un mercato nei
fatti marginale che ha pero’ condizionato le aspettative
estetiche di committenti e fruitori intrigati dagli effetti
speciali e dalla eccezionalita’ del segno. Tutto questo
mentre il resto del mondo deve fare I conti con le giuste
istanze della ricerca sul contenimento energetico e con il
potere di acquisto di utenti che non sono sempre o soltanto
la fondazione Guggenheim. Trovo quindi davvero giusto aprire
un dibattito e una riflessione generale sui futuri modelli
insediativi veramente compatibili con i caratteri e
l’economia del nostro paese, in assoluta liberta’ rispetto
ai lacci del passato e magari in coerenza con la nostra
ultima vera stagione di sperimentazione che e’ stata quella
del 900. Una generazione di maestri, architetti, ingegneri e
costruttori che ci ha lasciato architetture che ancora oggi
costituiscono un riferimento per progettisti internazionali
che, in molti casi, non hanno saputo proporre se non
l’estetica del «famolo strano».
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Fonte: http://www.corriere.it | ||||
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/09_Settembre/10/pop_architetti.shtml | ||||
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