Un
titolo questo che sembrerebbe portare il Festival, e
l’architettura che vi scorre, verso la dimensione dei massimi
sistemi, dei grandi spartiacque, delle categorie generali.
L’istanza morale appare scaturirne spontaneamente, come se si
provasse a resuscitare quelle liaison dangeureuses tra
architettura e moralità, per altro da tempo sottoposte
all’ironia demolitrice di un Watkin anzichè alla critica della
profonda indagine tafuriana e di tanti altri a seguire, che una
condizione sempre più acquisita di post-modernità non può
certamente più riproporre in termini ideologici e di ragione
storica. L’avanzare il tema, così assunto, tradisce quindi
intenzioni anacronistiche. Ma, per via strumentale, non è forse
anche attraverso un anacronismo che si riesce a rompere le
convenzioni totalizzanti di un architettura contemporanea
agnostica, prevalentemente dedita al relativistico gioco
simulacrale della città spettacolo, alla prassi di un’efficienza
comunicazionale di cui si fa copertura un tecno-fantasismo
progettuale velleitario quanto pervasivo? Fuori quindi da ogni
tentazione neo-ideologica, da ogni convinzione assoluta sul
ruolo etico del progetto, appare però giustificato il richiamo
ad una ricerca di significato, di funzione di un architettura
che possa appartenerci, in quanto attori piuttosto che
spettatori. In questa prospettiva, parlare di ricchezza e
povertà significa però innanzitutto cominciare a domandarsi in
termini letterali: come l’architettura si rapporta a queste due
condizioni che caratterizzano lo stato economico ma anche
socio-culturale degli individui, la situazione discriminante di
una comunità, di una città ma anche di un intera nazione od area
continentale? Una concretezza interrogativa che, oltrepassando
il polverone mondano dell’architettura mediatizzata, può trovare
riscontri straordinari nelle pieghe dello stratificato della
città italiana ed europea così come nell’estensione delle
metropoli o degli insediamenti misconosciuti di altre realtà
mondiali.
Risposte
che l’architettura può dare, con il limite che le è proprio, ma
che comunque entrano nel merito di scelte capaci di contribuire
o alla radicalizzazione perversa della conflittualità, alla
logica della separazione e dell’abbandono, oppure a virtuosi
processi di integrazione, di perequazione, di conciliazione
basati su un’intelligente possibilità di fruizione delle risorse
insediative, ambientali, urbane, in generale architettoniche. Il
tema della povertà non potrà più certamente passare attraverso
una engelsiana questione delle abitazioni capace di
rappresentare lo scontro paradigmatico tra blocchi sociali
(classe operaia e borghesia) occupanti per intero la scena della
polis sin oltre la prima metà del Novecento. Allo stesso modo
appare oggi riduttiva l’interpretazione architettonica di una
dimensione della ricchezza ancora fortemente legata ad
un’identità omogenea, quanto culturalmente elevata,
corrispondente alla borghesia di una modernità matura, così come
è stato, ad esempio, attraverso le icone rivoluzionarie, per
strade differenti ma parallele, delle architetture di Wright o
di Mies. Ma, come ci ricorda il metodo di indagine storica di
Braudel, una società è da sempre insieme degli insiemi, e ancor
di più oggi, nell’era dell’accelerazione dei nuovi scenari
fenomenici (anche insediativi) della massima circolazione finora
mai sperimentata, l’incremento della quantità e qualità degli
insiemi, la loro estensione inedita, la determinazione di nuovi
spazi derivati dall’articolazione delle forme relazionali, ci
introduce a scenari concettuali, oltre che di esperienza
materiale, in continua e rapida evoluzione.
Se
questo però significa la moltiplicazione degli attori, delle
scene e dei teatri operativi che coinvolgono la funzione
dell’architettura, la sua costruzione di senso, appare comunque
necessario l’utilizzo di categorie generali capaci di orientare
una volontà di lettura, di trasformazione, di progetto. Ecco
allora che la partita dell’architettura a scala planetaria, tra
ricchezza e povertà (ma anche tra circolazione, comunicazione,
riproduzione, ibridazione, sintesi, meticciamento,
omogeneizzazione, tecnicismo) deve innanzitutto passare il
vaglio di un chiarimento sul problema identitario, su ciò che
l’architettura rappresenta in quel luogo, in quel contesto, e
per chi la determina. Una condizione identitaria capace di
restituire innanzitutto una valenza di verità, di consapevolezza
e di responsabilità al rapporto che l’architettura intrattiene
con il mondo che trasforma, che non necessariamente si
identifica, anche ma non solo, in un mondo regionalistico, per
quanto ci trascina – inesorabilmente - la dimensione
spazio-temporale postmoderna degli scambi e delle conoscenze. In
questa chiave l’internazionalizzazione dell’architettura può
assumere due declinazioni contrapposte: quella di una povertà
identitaria basata sulla circolazione acritica di modelli
insediativi di esportazione capaci di rispondere prevalentemente
a finalità di ordine economico (sino poi a che punto?), oppure
quella di una ricchezza identitaria dove il gioco avvalorante
della peculiarità, della differenza, si riproduce attraverso la
ricerca di ragioni specifiche, di conoscenze e interpretazioni
reali e contestualizzate, di capacità di cogliere nuovi bisogni
e proiezioni desideranti, di reinvestire vecchie culture nei
congegni inventivi delle nuove. In altre parole serve riflettere
su come contrastare una tendenza all’impoverimento delle specie
architettoniche, come d’altra parte condizione parallela ed
integrata allo scadimento antropologico caratterizzato dal
prevalere di sensibilità primitive, analfabetismi di ritorno,
derive bio-politiche, virtualizzazione dell’esperienza,
assuefazione al non-luoghi.
Risulta d’altra parte evidente che il
giorno di una ridotta varietà di espressione, rappresentazione e
specificità funzionale dell’architettura, rappresenta un giorno
di un impoverimento generale (culturale ma alla lunga anche
economico), quello che spesso ormai ci lascia delusi, anche sul
piano della più banale esperienza turistica, di fronte alla
replica di repertorio di molte aree urbane del pianeta, e in
particolare di quelle in via di più forte trasformazione.
La seconda edizione del Festival
dell’Architettura apre la propria, pur ridotta e non
sistematica, capacità di ricerca ad un ambito internazionale
capace al contrario di dimostrare come l’avanzamento evolutivo
possa invece essere occasione di arricchimento del portato di
significati e di capacità interpretativa, quindi di peculiarità
dell’architettura, paese per paese, contesto per contesto.
Attraverso scuole, architetti ed operatori responsabili, capaci
di porsi criticamente di fronte al professionismo
d’importazione, e di incrementare una ricerca progettuale
incentrata sulla dialettica tra forme originali della
peculiarità insediativa e l’onda d’urto delle nuove esigenze che
i processi forti di trasformazione necessariamente comportano. |